Parliamo – usando le parole con il contagocce – di una piccola e leggera goccia d’acqua chiara, composta di idrogeno e ossigeno e di un’invisibile miniera di particelle minerali. Acqua che disseta, nutre, lava, purifica, rinfresca…
Laudato si’, mi’ Signore, per sor Aqua, /la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta, come pregava San Francesco.
Anche se tutte le gocce si assomigliano, ce ne sono alcune che si distinguono per diversità di funzione, di suono o di valore metaforico.
C’è la proverbiale gutta degli antichi Romani che, gocciolando cavat cavat cavat, alla lunga cavat lapidem, scava la pietra.
C’è l’antidiluviano sgocciolamento carsico che, a forza di stal stal stal, costruisce stalattiti per gli uomini delle caverne.
C’è la classica goccia soprannumeraria che, con un repentino trab, “fa traboccare il vaso”.
C’è il fastidioso gocciolio della “Fontana malata” di Aldo Palazzeschi – clof, clop, clock, / cloffete, / cloppete, / clocchete, / chchch…-, metafora del cattivo funzionamento di tanti meccanismi sociali.
Ci sono, poi, le gocciole in concerto della “Pioggia nel pineto” di Gabriele D’Annunzio:
La pioggia cade / su la solitaria / verdura / con un crepitío che dura / e varia nell’aria / secondo le fronde / più rade, / men rade… / E il pino / ha un suono, e il mirto / altro suono, e il ginepro / altro ancóra, stromenti / diversi / sotto innumerevoli dita.
Di singole gocce è formata l’acqua del rubinetto, quella del fiume e quella del mare. Perciò, dobbiamo considerare che come ogni singola goccia d’acqua marina contribuisce a formare il mare, così ogni nostra parola, se non teniamo bene a freno la lingua o la penna o la tastiera del computer, può contribuire a formare… un mare di parole.
Nicola Bruni
Nella foto (di Nicola Bruni), la fontana di Palazzo Barberini a Roma.