Si era coricato “quasi felice” il prigioniero politico S-854, al termine di una “bella giornata” di gennaio del 1951, dopo 11 ore di lavoro forzato da muratore a 27 gradi sotto zero, in un gulag (lager) del regime comunista sovietico. Prima di addormentarsi, disse: “Ti ringrazio, Signore, se n’è andato un altro giorno”.
Quel giorno, pensò, aveva avuto “molta fortuna”: non l’avevano ficcato in prigione, a pranzo aveva rimediato una “sbobba” in più, non si era ammalato e, insomma, “ce l’aveva fatta”.
Concludeva così il racconto di “Una giornata di Ivan Denissovic”, il grande scrittore russo Aleksandr Solgenitsyn (11 dicembre 1919 – 3 agosto 2008), premio Nobel per la letteratura 1970.
Quel romanzo, pubblicato in Urss nel 1962, ai tempi di Krusciov, fu la prima coraggiosa denuncia delle condizioni disumane in cui erano costretti a lavorare come schiavi, in un immenso arcipelago di campi di prigionia, milioni di cittadini sovietici, vittime di uno spietato sistema di repressione politica: nel gelo, nella fame, nello sfinimento, sottoposti a continue angherie, violenze fisiche e psicologiche, e all’arbitrio di capi che rubavano sul cibo dei detenuti.
Anche il prigioniero Solgenitsyn “ce l’aveva fatta”, a differenza di moltissimi suoi compagni di sventura, ammazzati o fatti morire di stenti e di malattie. Arrestato nel 1945 per aver criticato Stalin in una lettera privata, sperimentò per 11 anni l’inferno siberiano dei gulag, riuscendo a sopravvivergli, addirittura fino a 90 anni di età, grazie ad una tempra fisica eccezionale, sostenuta da una straordinaria forza d’animo: quella stessa forza interiore che, nel romanzo, consentiva al prigioniero Ivan di mantenersi sereno e rassegnato di fronte all’ingiustizia subìta, e disponibile ad aiutare i compagni nella quotidiana lotta per la vita.
Nicola Bruni
Nella foto in alto, il prigioniero Solgenitsyn perquisito in un gulag staliniano della Siberia.