L’origine delle teorie razziali è stata spiegata dallo storico tedesco Walter Demel, in un libro pubblicato nel 1997 dall’editrice Vita e Pensiero: “Come i cinesi divennero gialli”. Questo studioso ha scoperto che, nei resoconti lasciati da viaggiatori e missionari europei che visitarono la Cina fra il XVI e il XVIII secolo, i cinesi erano descritti come “bianchi”, “bianchi come noi”, e in nessun caso come “gialli“. A quell’epoca gli europei avevano una grande ammirazione per la cultura cinese.
Dunque, quand’è che i cinesi sono stati ingialliti? Nella seconda metà del Settecento, ovvero nell’età dell’Illuminismo, allorché gli europei svilupparono un sentimento di superiorità rispetto agli altri popoli della terra e pretesero di attribuire colorazioni spregiative alle “razze inferiori” degli altri continenti “dipingendo” di “giallo” la pelle dei cinesi e dei giapponesi, di “negro” quella degli africani e di “rosso” quella degli amerindi.
Nel Medioevo, invece, gli africani erano indicati come “mori”, termine al quale generalmente si attribuiva una connotazione positiva, talvolta anche di nobiltà. Connotazione positiva che possiamo capire anche oggi, quando vediamo che d’estate al mare tutti i vacanzieri “bianchi” vogliono farsi la pelle “nera“, compresi i razzistelli da stadio, che per un paio di mesi… “cambiano razza”.
Anche la connotazione negativa del “nero”, come stereotipo di un’ampia gamma di colori di pelle scura (ebano, marrone, nocciola, caffellatte…), si sviluppò nella seconda metà del Settecento, quando si diffusero di più la tratta e lo sfruttamento di schiavi africani ad opera di popoli sedicenti “bianchi”. Quei popoli che dicono di avere la pelle bianca, ma in realtà ce l’hanno di un indefinibile colore chiaro, con moltissime sfumature diverse da un gruppo etnico all’altro e da un individuo all’altro.
Nicola Bruni