Esclusi dalla rappresentanza milioni di elettori delle formazioni politiche minori, presenti e future,
e le aree del Paese meno densamente popolate.
Mira, in realtà, a privare della rappresentanza parlamentare milioni di elettori delle formazioni minori, presenti e future, la legge costituzionale confermata dal referendum del 20 e 21 settembre 2020, che taglia con l’accetta, e senza alcun criterio razionale, il numero dei parlamentari da 630 a 400 per la Camera e da 315 a 200 per il Senato. Infatti, con la riduzione del numero di deputati e senatori, si innalza (in diversi casi fino al 20 per cento) la percentuale di voti necessaria in ciascuna circoscrizione per ottenere un seggio, a beneficio dei partiti maggiori, che potranno spartirsi tutti i posti da assegnare: ecco perché erano tutti d’accordo sul “taglio”.
Ne consegue che potrebbero non avere neppure un senatore o un deputato le aree meno popolate del Paese, comprese intere province, come Benevento, Sondrio e Ragusa. E potrebbero non avere neppure un eletto partiti con oltre un milione di voti sparsi nel territorio nazionale.
Il “taglio”, che non è inserito in un disegno organico di riforma, potrebbe produrre anche gravi compromissioni degli equilibri costituzionali:
1) si facilita – con la complicità della legge elettorale, che non è stata cambiata, nonostante gli impegni assunti – la conquista della maggioranza assoluta dei seggi parlamentari anche con il 35-40 per cento dei voti da parte di una lista o di una coalizione minoritaria nel Paese, la quale potrebbe così riformare da sola la Costituzione ed eleggere da sola il Presidente della Repubblica e i membri della Corte Costituzionale;
2) la riduzione da 315 a 200 dei senatori eletti farà crescere in proporzione il peso numerico dei senatori a vita nelle votazioni assembleari di Palazzo Madama;
3) il “taglio” complessivo di 345 parlamentari farà aumentare l’incidenza dei rappresentanti delle Regioni nell’assemblea chiamata ad eleggere il Capo dello Stato.
Se lo scopo da perseguire fosse, come si dice, un abbattimento dei costi della politica (ma il risparmio prodotto da questo “taglio” sarebbe di circa 1 euro all’anno per cittadino), ci si sarebbe potuti arrivare, senza bisogno di alterare la Costituzione, abbassando alla media europea i super-emolumenti dei nostri parlamentari ed eliminando i privilegi della “casta”, oppure riducendo i costi eccessivi delle segreterie e degli uffici stampa dei membri del Governo.
Ma perché questo non accade? Questo non accade, perché in realtà il “taglio dei parlamentari” mira anche a svuotare le funzioni delle Camere limitandole alla sola ratifica dei decreti-legge del Governo, a scatola chiusa e con voto di fiducia: mira cioè a rafforzare il trasferimento già in atto del potere legislativo dal Parlamento al Governo.
Si è arrivati al punto che la riduzione a 200 del numero dei senatori rischia di rendere impossibile al Senato il reperimento delle competenze necessarie per le 14 Commissioni di settore incaricate di esaminare le proposte di legge. Ma i “volponi” che hanno fatto votare il “taglio” dei senatori lo sanno; e sanno pure che non è così che si snellisce il lavoro del Parlamento. Per quello ci vorrebbe una riforma dei regolamenti di Camera e Senato, che non viene fatta.
Il “taglio dei parlamentari” è una truffa per i cittadini, ai quali si fa credere che costituisca una punizione per l’odiata “casta”, la quale invece si rafforzerà come oligarchia di potere incentrata sui “capi politici”, dal momento che questi potranno controllare meglio i deputati e i senatori, di cui si sono riservati per legge la nomina lasciando agli elettori, privati del diritto di scelta tra i candidati, solo di stabilire la ripartizione dei seggi.
Perciò, io ho votato NO, come ai tre precedenti referendum su riforme costituzionali sballate.
Nicola Bruni
Le Commissioni parlamentari andranno in tilt
Non è vero che un Parlamento meno numeroso sia più efficiente, poiché il grosso del lavoro legislativo lo fanno le Commissioni permanenti di Camera e Senato, nelle quali devono essere rappresentati in proporzione tutti i gruppi e devono esserci persone competenti negli ambiti specifici. Il loro funzionamento è previsto dall’articolo 72 della Costituzione: “Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale. Il regolamento stabilisce procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l’urgenza”.
Le Commissioni possono operare in sede referente (si studiano i problemi posti da un disegno di legge e si riferisce con una o più relazioni all’Aula), consultiva (si dà un parere su un ddl di un’altra Commissione), redigente(si delibera sul ddl articolo per articolo, demandando la votazione complessiva all’Aula) e legislativa o deliberante (si vota il ddl articolo per articolo e nel suo complesso, senza rinvio all’Aula).
Nonostante la drastica riduzione del numero dei parlamentari, le Commissioni permanenti resteranno, giustamente, 14 in ciascuna Camera (a Montecitorio: 1. Affari costituzionali, Presidenza del Consiglio e Interni; 2. Giustizia; 3. Affari esteri; 4. Difesa; 5. Bilancio, Tesoro, Programmazione; 6. Finanze; 7. Cultura, Scienza e Istruzione; 8. Ambiente, Territorio e Lavori pubblici; 9. Trasporti, Poste e Telecomunicazioni; 10. Attività produttive, Commercio e Turismo; 11. Lavoro pubblico e privato; 12. Affari sociali; 13. Agricoltura; 14. Politiche dell’Unione europea).
Il problema è che con il “taglio”, sulla base dei regolamenti che non sono stati modificati, non tutti i gruppi – specie quelli piccoli e medi – riuscirebbero ad esservi rappresentati: se al Senato è previsto che uno stesso senatore possa essere assegnato a tre Commissioni permanenti (favorendo così la presenza delle minoranze nelle diverse Commissioni, ma con un rallentamento del processo legislativo), alla Camera i deputati non possono essere designati per più di una Commissione, e ciò farebbe venir meno in molti casi la rappresentanza dei partiti medi e piccoli con vantaggio numerico per quelli maggiori.
Inoltre, come ho già detto, nelle Commissioni c’è bisogno di persone competenti, altrimenti vengono fuori leggi sballate. E se si taglia di un terzo il numero dei parlamentari, poiché molti degli eletti (scelti dai capi partito tra i politici più fidati) sono incompetenti, si rischia di non avere un numero sufficiente di persone che sappiano scrivere i testi legislativi e capire certi cavilli che per interessi di parte a volte ci vengono infilati da qualche “manina”.
Per lo stesso motivo, non è garantito che il “taglio” dei parlamentari si abbatta sui corrotti, i mediocri e i fannulloni assenteisti, poiché la scelta degli eletti non dipende dagli elettori ma dalla collocazione in lista dei candidati, che non sempre privilegia i migliori, e dalle opzioni di rinuncia dei leader presentati in più circoscrizioni, che fanno subentrare rincalzi spesso sconosciuti.
Perciò, la vera questione da risolvere non è la riduzione del numero dei parlamentari, ma il modo in cui vengono eletti. Se la scelta non dipende dai voti di preferenza degli elettori, i candidati e poi gli eletti non hanno nessun interesse a spendere soldi ed energie personali per intrecciare una rete di relazioni con la base elettorale nel territorio, perché ad attrarre voti “ci pensa il partito”: l’importante per loro è avere la fiducia e la stima del capo partito, dal quale dipende la possibilità di elezione o rielezione. Di qui lo scollamento che si verifica tra i rappresentanti eletti in Parlamento e i cittadini da loro politicamente rappresentati, che spesso neppure conoscono chi vanno a votare. Nella cosiddetta Prima Repubblica, che manteneva i voti di preferenza, non era prevalentemente così.
Nicola Bruni
Come verrà tagliato a fette il Parlamento
circoscrizione per circoscrizione, regione per regione,
con la modifica della Costituzione che riduce
da 630 a 400 il numero dei deputati e da 315 a 200 il numero dei senatori elettivi.
L’Italia non si allinea agli altri Paesi europei – come sostengono i tagliatori di seggi – ma scende all’ultimo posto, con la legge di modifica della Costituzione che riduce da 630 a 400 il numero dei deputati e da 315 a 200 il numero dei senatori elettivi.
Infatti, il numero medio di abitanti per deputato in Italia passa da 96.006 a 151.210, il più elevato tra tutti gli Stati membri dell’Unione Europea (e Regno Unito), e l’Italia finisce ultima in classifica con un rapporto di 0,7 deputati per 100.000 abitanti, dopo la Spagna (0,8).
Il numero medio di abitanti per ciascun senatore cresce da 188.424 a 302.420, con alcune distorsioni nei rapporti proporzionali tra le regioni, a vantaggio di Valle d’Aosta (126.806), Molise (156.830), Trentino-Alto Adige (171.579) e Basilicata (192.678).
Peraltro, è scorretto sommare il numero dei deputati con quello dei senatori nel fare il confronto dell’Italia con gli altri Paesi, perché Camera e Senato lavorano separatamente.
Così pure è scorretto non tenere conto del rapporto tra eletti e abitanti, come fa la propaganda dei soliti “tagliatori di seggi”: ebbene, secondo una classifica stilata dai Servizi studi di Camera e Senato, l’Italia, con i suoi 945 parlamentari attuali (tra deputati e senatori) si colloca non al primo ma al 22° posto tra gli Stati membri dell’Ue con un rapporto di 1,6 eletti ogni 100mila abitanti, seguita con indici più bassi soltanto da Polonia, Francia, Paesi Bassi, Spagna e Germania.
La riduzione dei seggi, che in media nazionale è del 36,6 per cento per entrambi i rami del Parlamento, al Senato si applica in maniera fortemente disomogenea su base regionale, con il 57,1 per cento di Basilicata e Umbria, il 42,9 di Abruzzo e Friuli-Venezia Giulia, e il 40 della Calabria, a fronte del 14,3 del Trentino-Alto Adige.
Altra conseguenza distorsiva del sistema politico, prodotta dall’elezione di un numero ridotto di deputati e ridottissimo di senatori, si ha con la limitazione di fatto della contesa elettorale in diverse regioni (in particolare, Molise, Basilicata, Umbria, Abruzzo e Friuli-Venezia Giulia) a due, massimo tre, partiti, che introduce un sistema maggioritario non previsto dalla legge.
A ciò si aggiunga che il forte ampliamento dei collegi renderà più costose le campagne elettorali per i candidati, favorendo i politici più ricchi o che ricorrano a finanziamenti illegali, e provocando un ulteriore allontanamento degli eletti dagli elettori e dal territorio.
Infine, osservo che nell’acceso dibattito referendario i sostenitori del SI’ si sono divisi in due grandi categorie: quelli che volevano tagliare le “poltrone” [benché alla Camera e al Senato non ci siano “poltrone” ma “scranni” con il sedile ribaltabile] per risparmiare sulla democrazia parlamentare, e quelli che invece volevano mandare “tutti a casa” e chiudere il Parlamento, ritenendo che l’intera classe politica sia formata da corrotti e parassiti, per poi magari farsi governare da “un uomo solo al comando” come ai tempi di “quando c’era Lui”.
Nicola Bruni