Vi racconto come si faceva la raccolta dei rifiuti domestici a Roma quando io ero bambino, negli anni del dopoguerra, e poi fino ai primi anni ’70.
Nel mio palazzone di Via Licia, ogni mattina tra le ore 7 e le 8, passava per ogni piano un facchino della Nettezza Urbana con un sacco di tela olona sulle spalle, preceduto dal trillo di un fischietto e dal grido: “Mondezzarooo!”. Gli inquilini aprivano la porta di casa e versavano nel sacco del mondezzaro i propri rifiuti contenuti in un secchio, generalmente di alluminio e di solito rivestito all’interno con carta di giornale.
Bisognava stare attenti a incartare bene i vetri, per evitare che il mondezzaro si ferisse, come purtroppo fu segnalato in altre situazioni.
Allora non c’erano buste di plastica, perciò a volte l’umido dell’immondizia finiva per scolare dal sacco, che poi veniva caricato su un camion e portato alla discarica.
Quando l’ascensore era guasto – cosa che accadeva spesso – il povero mondezzaro doveva salire dieci piani a piedi, e poi discenderli con il fiatone.
Gli utenti del servizio provavano compassione per la durezza del suo lavoro, e in prossimità delle feste di Natale, Pasqua e Ferragosto si sentivano in dovere di dargli una mancia.
A quei tempi, la quantità di rifiuti prodotti da ogni famiglia non era molto elevata, per tre motivi: 1) non c’erano tanti imballaggi; 2) si consumava di meno; 3) non si buttava niente di ciò che fosse riciclabile, compresi i fogli di giornale che spesso supplivano alla mancanza di carta igienica per il gabinetto.
Peraltro, alcuni “zozzoni” erano abituati a lanciare dalle finestre i loro avanzi, che in parte finivano in un cortiletto condominiale seminterrato. Questo provocava regolarmente le ire e le invettive della nostra portiera, la quale doveva pulire il cortiletto, e ogni volta mandava gli zozzoni “a morì’ ammazzati”. Quelli, però, non li ammazzava nessuno, e allora lei invocava contro di loro un’altra soluzione: “Se possino svejià’ stecchiti!”.
Nicola Bruni