Letterina ritrovata del 1955.
“Caro Cioccio”, così mi chiamava, affettuosamente, il mio papà. Ho ritrovato nell’archivio di famiglia una lettera che mi inviò dalla Calabria il 25 maggio 1955, quando avevo 13 anni e frequentavo a Roma la terza media. Si congratulava con me dopo aver appreso che avevo vinto per concorso una borsa di studio di 30mila lire del Ministero della Pubblica Istruzione.
“Come vedi – mi scriveva -, quando si fa bene, bene si avrà, non solo dal punto di vista materiale del danaro ma da quello morale e sociale di vedersi emergere tra gli altri con il valore dell’intelletto e dello studio. Tu continua a fare sempre bene e meglio e vedrai che tante ma tante altre soddisfazioni avrai nella vita, come questa e anche più di questa. Ricordati che l’elevazione intellettuale deve procedere unitamente ad un’altra elevazione più grande e più bella, che è quella morale, nobilitando l’animo, educandolo alla bontà e all’amore per tutti, alla generosità e alla lealtà con tutti e alla fierezza della vita”.
Papà Peppino, maresciallo dell’Esercito, era – come si diceva una volta – un uomo “tutto d’un pezzo”. Quello che scriveva rispecchiava il suo animo, di persona gentile, onesta, generosa e altruista, pronta ad aiutare chi ne avesse bisogno.
Lui, che era potuto andare a scuola solo fino alla sesta elementare, e poi si era formato da autodidatta, era orgoglioso dei successi scolastici dei suoi tre figli, che, uno dopo l’altro, sarebbero arrivati alla laurea.
Ogni volta che, a Natale e a Pasqua, leggeva la letterina di auguri che io, da bambino, dedicavo a lui e alla mamma, anche a nome della sorellina Mariuccia e del fratellino Antonio, non riusciva a trattenere lacrime di commozione.
Nato nel 1907 a Dasà, nei pressi di Vibo Valentia, figlio di un sarto, a 18 anni si arruolò come volontario nel Regio Esercito e conseguì il grado di sergente. Nel 1935-36 partecipò alla guerra d’Etiopia, durante la quale ottenne la promozione a maresciallo e una medaglia di bronzo al valor militare. Tornato in patria, fu chiamato a prestare servizio a Roma nel Ministero della Guerra, e non fu coinvolto nelle operazioni belliche del secondo conflitto mondiale.
Il 5 febbraio del 1941, sposò nel Santuario di San Francesco di Paola la mia futura mamma, Stella Cesarelli, di Arena, un paese vicino al suo, e si sistemò con lei a Roma in un appartamentino di Via Licia, dove io ebbi la ventura di nascere il 26 ottobre dello stesso anno.
All’inizio del 1944, durante l’occupazione tedesca di Roma, papà si rifiutò di giurare fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, e fu immediatamente “collocato a riposo” senza assegni. Fortunatamente, i nazisti non si misero a cercarlo per deportarlo in Germania (come toccò ad altri 600mila militari italiani), ma la mia famiglia restò priva di reddito. Allora patimmo la fame. Papà andava in giro nelle campagne dei dintorni per scambiare con generi alimentari le provviste di sale che aveva fatto allo scoppio della guerra. Poi, grazie ad un amico, trovò un posto di guardiano di ricovero antiaereo. Dopo la liberazione di Roma, del 4 giugno 1944, fu reintegrato con onore nell’Esercito.
Un gioco che gli piaceva fare con noi tre figli, quando eravamo piccoli, era la divisione dei confetti che ci venivano regalati in occasione di battesimi e matrimoni. Prendeva dalla bomboniera un confetto alla volta, lo spezzava in quattro, ne distribuiva tre frammenti, uno a ciascuno, e sorteggiava il quarto: lui diceva “uno, due e tre“, e chi alzava per primo il dito se lo aggiudicava. Grazie a quel giochino parsimonioso, i confetti duravano più a lungo. Erano tempi nei quali le “leccòrnie” – come diceva papà sbagliando l’accento – per noi bambini erano molto scarse.
Nicola Bruni
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Nella foto, papà Peppino Bruni nel 1941, all’età di 34 anni.