Il 4 giugno del 1944 i soldati americani entrarono trionfalmente a Roma, dopo che le truppe tedesche occupanti se ne erano ritirate senza combattere evitandole la catastrofe, per la miracolosa intercessione di Papa Pio XII. Era finito un incubo.
Quella sera anch’io, in braccio a mio padre – avevo appena due anni e mezzo -, feci festa ai “liberatori” che passavano con jeep e carri armati per Via Gallia; e ne ricevetti in dono un tubetto di “caramelle col buco”. E’ il ricordo più antico che conservo della mia vita.
Il resto mi fu raccontato. Ero nato in casa, a Via Licia, sotto la dittatura fascista, mentre l’Italia era in guerra contro mezzo mondo, alleata della Germania di Hitler, e collaborava al progetto nazista di sterminio degli ebrei.
Vigeva il coprifuoco notturno e l’oscuramento dei vetri delle finestre, in funzione antiaerea. Se qualcuno si azzardava a far trapelare una luce, veniva attaccato dai vicini al grido di “traditore”.
La mattina del 19 luglio 1943 gli aerei americani bombardarono all’improvviso Roma. Undici giorni prima era nata la mia sorellina, Mariuccia, che si trovava in casa con me e con la mamma. Furono sganciate moltissime bombe, che andarono a colpire non le ville ben note dei gerarchi del regime ma il quartiere popolare di San Lorenzo, la sua antica basilica, il cimitero del Verano e lo scalo ferroviario delle merci, a breve distanza da casa nostra. Dalle macerie furono estratti circa 1600 morti e migliaia di feriti.
Noi abitavamo al nono piano e, quando suonava la sirena dell’allarme aereo, dovevamo scappare tutti nel rifugio sotterraneo della cantina scendendo di corsa e con grande agitazione venti rampe di scale.
Nel rifugio, molti pregavano; alcune mamme intrattenevano i bambini raccontando fiabe a lieto fine; altre cullavano i loro piccoli per farli addormentare. E quando suonava la sirena del cessato allarme, si tornava a casa, ringraziando Dio o la buona sorte per lo scampato pericolo.
Il 10 settembre 1943, due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, le truppe tedesche occuparono Roma, e al terrore dei bombardamenti si aggiunse quello degli arresti in casa, delle retate per le strade e delle rappresaglie omicide contro la popolazione ad opera dei nazisti, per attentati e sabotaggi messi in atto dai partigiani.
Mio padre, maresciallo dell’Esercito in servizio al Ministero della Guerra, si rifiutò di giurare fedeltà alla repubblica nazifascista di Mussolini, fu licenziato in tronco e, per questo, era a rischio di essere catturato dai tedeschi (che per fortuna non si accorsero di lui) e “internato” come prigioniero in Germania, al pari di altri 650mila militari italiani.
I viveri nei negozi scarseggiavano ed erano razionati sulla base di tessere annonarie. Davanti ai panifici, si formavano file lunghissime, e gli ultimi arrivati restavano a mani vuote. La mia famiglia pativa la fame, e tuttavia i miei genitori accolsero e nascosero in casa due nipoti calabresi ventenni, che studiavano a Roma ed erano ricercati dai nazifascisti come renitenti alla leva militare della Repubblica di Salò.
Non so come, grazie a Dio, alla fine ci salvammo tutti quanti.
Nicola Bruni
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Nella foto, colonna di soldati americani in Via Appia Nuova a Roma, davanti a Porta San Giovanni, il 5 giugno 1944.