Io, come tanti “bamboccioni” italiani, mi sono sposato e ho “smammato” tardi dalla casa romana dei miei genitori, quando avevo già superato i 32 anni, sebbene avessi cominciato a lavorare fin dal diciannovesimo anno di età, prima come giornalista e poi anche come insegnante.
Mia madre si preoccupava che io non mi formassi una famiglia, visto che, raggiunta la trentina, non mi ero ancora fidanzato, pur avendo amicizie e frequentazioni femminili alla luce del sole.
Perciò, in un giorno d’estate del 1972, mentre eravamo in vacanza in Calabria, lei mi propose di combinarmi un matrimonio con una ragazza del suo paese di origine, che io conoscevo e che secondo lei aveva tutti i requisiti per fare al caso mio: era carina, educata, apparteneva a una buona famiglia e aveva un lavoro assicurato come maestra elementare.
Io le risposi, con una battuta: “Mamma, quella ragazza ha tutte le qualità che dici tu, ma ha un piccolo difetto: parla con un forte accento calabrese che stonerebbe con il mio accento romanesco”. “E poi – aggiunsi – io non sono innamorato di lei”.
Giusto l’anno successivo, dopo Ferragosto, mentre la mamma era in vacanza in Calabria, io le telefonai da Roma per annunciarle che mi ero innamorato e fidanzato con una bella ragazza di Catania… educata, di buona famiglia e insegnante di lettere, che avevo conosciuto pochi giorni prima in un convegno di professori a Loreto.
Lei fu piacevolmente sorpresa da quella notizia inaspettata, ma mi obiettò: “E con il suo accento siciliano come la metti?”. “In questo caso – la rassicurai – l’importante è che, sull’amore, l’accento sia acuto”.
Infatti, l’accento sull’amore tra me ed Elina era talmente acuto che ci sposammo esattamente undici mesi dopo il primo bacio. Poi, grazie a Dio, quell’accento si è mantenuto acuto nei 47 anni di vita coniugale, e nel mio cuore è diventato ancora più acuto con la morte della mia sposa.
Nicola Bruni