La guerra raccontata da Elina
– Era il 14 aprile del 1943, quando una grossa bomba sganciata da un aereo degli Alleati cadde in un giardino contiguo a quello della nostra casa di Catania infossandosi senza esplodere. Avvertimmo un boato e una forte scossa di terremoto. Si può immaginare lo spavento: se la bomba fosse esplosa, la nostra casa sarebbe stata spazzata via e noi saremmo tutti morti: papà Carmelo, mamma Antonia, tre figlie femmine e la nonna materna Carmelina.
Poco prima era suonato l’allarme per un attacco aereo nemico, ma la nostra famiglia non poteva muoversi perché era appena nata in casa la mia sorellina Silvana.
In quel momento la mamma stava bevendo una spremuta di arancia, e il bicchiere le fu sbalzato di mano dallo spostamento d’aria finendo a terra in frantumi.
Io allora avevo tre anni; la mia sorella maggiore Antonietta ne aveva otto.
Con le lacrime agli occhi, ringraziammo Dio per il miracolo della mancata esplosione della bomba.
Purtroppo, altre bombe caddero sulle case vicine e causarono distruzioni, morti e feriti gravi. Mi ricordo di aver visto dalla finestra persone straziate nel corpo dalle schegge.
La nostra casa era una palazzina a due piani con un giardinetto, sita in Via Palermo 31, nei pressi di Piazza Palestro, quartiere del Fortino, una zona bersagliata in quel periodo da bombardamenti indiscriminati.
Dopo quello che era accaduto, mio padre decise di lasciare Catania e trasferire la famiglia in un luogo più tranquillo. Trovammo rifugio a Sant’Anastasia, un paese di collina della provincia. Alloggiavamo in un appartamentino privo di acqua corrente, al pianterreno di una casetta di periferia, concesso in affitto da una famiglia che abitava al piano di sopra.
Anche da lì sentivamo il rombo dei bombardieri che martellavano la Piana di Catania, dove c’era l’aeroporto, e le esplosioni degli ordigni che venivano sganciati a grappoli dall’alto. Allora correvamo a rifugiarci nel vano del sottoscala.
Un giorno mia madre, che era andata a prendere l’acqua alla fontana di una piazzetta poco distante, vide passare a piedi una colonna di soldati tedeschi in ritirata. Apparivano stanchi e malconci. Uno di loro le chiese da bere, e lei gli porse il suo “bùmmulu” di terracotta che aveva appena riempito. Il ragazzo bevve a garganella dalla brocca e poi gliela restituì ringraziandola.
In seguito, ci trasferimmo al centro del paese, andando ad occupare, in qualità di “sfollati“, l’ex Casa del Fascio, abbandonata dalle camicie nere in fuga.
Seduta sullo scalino di ingresso di quel fabbricato, io vedevo passare i carri armati degli Alleati che erano sbarcati in Sicilia e stavano invadendo l’isola. Seppi poi che erano gli inglesi del generale Montgomery.
Uno dei carristi si intenerì alla vista di quella “picciridda” con un grosso fiocco bianco in testa, e dalla torretta del suo tank le lanciò un pacchetto di gallette.
Io però, da brava bambina, non le mangiai prima di aver chiesto il permesso alla mamma, come mi era stato insegnato.
Elina Giunta Bruni