Un giorno, a scuola, un mio alunno di prima media, “enfant terrible“, annunciò che avrebbe cercato nel vocabolario di italiano le parolacce. Trovatane una, “divertentissima” (di quattro lettere, che cominciava per “c” e finiva per “o“), la mostrava ridacchiando ai vicini di banco. E poiché io gli tolsi di mano quel divertimento, proclamò con l’aria di chi, a 11 anni, la sa già lunga: “Tanto, io, di parolacce, ce n’ho pieno un quaderno”.
Riflettei che quel bambino diceva le parolacce per sentirsi “grande“, alla stessa maniera di certi adulti rimasti bambini che cercano di darsi importanza ricorrendo al turpiloquio.
“Turpiloquio?”: i ragazzini stentavano a credere che per definire le volgarità ci fosse un termine così “raffinato”. Uno di loro domandò: “Perché certe parole sono chiamate parolacce?”. Perché – risposi – di solito si tratta di espressioni di carattere sessuale che vengono usate con intenzione offensiva, o irriverente, o provocatoria, o di trasgressione di quelle che la nostra tradizione educativa ci indica come buone maniere.
Le parolacce, da molti, sono considerate divertenti: infatti, non pochi attori comici, a corto di spiritosaggini e incapaci di un umorismo elegante, le usano alla tv, al cinema e al teatro per far ridere un certo pubblico. Ma la cosa strana è che quel pubblico si sganascia dalle risate come se quelle frasi “trasgressive” (in realtà, conformate alla moda del parlare sguaiato) fossero barzellette esilaranti udite per la prima volta.
Inoltre, ci sono opinionisti e politici che con il turpiloquio “ci campano“, perché, come specialisti del ramo, sono ricercati apposta da alcuni conduttori di salotti televisivi per far aumentare gli ascolti e gli incassi pubblicitari della trasmissione. Senza rispetto per quel pubblico “diversamente educato” che considera le locuzioni scurrili un segno di maleducazione o di cattivo gusto e di degrado dell’espressione linguistica.
Un noto comico italiano ha addirittura fondato un movimento politico sul programma di una parolaccia con intento offensivo, il cosiddetto “vaffa“, dedicandogli un’apposita giornata.
D’altra parte, c’è chi si domanda: “Ma, in fondo, il ‘vaffa’ che valore ha?”.
Riguardo a me, se per ipotesi qualcuno mi ci “mandasse“, stia pur certo che io non ci andrei.
Nicola Bruni
Nella foto, un brano del vocabolario della lingua italiana Devoto-Oli.