Ho vissuto anche io, da bambino a Roma, l’incubo di bombardamenti come quelli che in questi giorni si stanno abbattendo sul popolo ucraino. Allora, ero molto piccolo e non ricordo quegli eventi terrificanti, ma ne riportai un trauma psicologico che mi ha lasciato uno strascico di eccessiva emotività almeno fino all’età dell’adolescenza.
La mattina del 19 luglio 1943 gli aerei americani bombardarono all’improvviso Roma, per la prima volta. Io avevo 2 anni e 8 mesi e mi trovavo con la mamma e la sorellina Mariuccia, neonata di 11 giorni, nella nostra casa di Via Licia. Furono sganciate migliaia di bombe, che andarono a colpire il quartiere popolare di San Lorenzo, la sua antica basilica, il cimitero del Verano e, come obiettivo principale, lo scalo ferroviario delle merci, a breve distanza in linea d’aria da noi. Altri bombardamenti imperversarono nella stessa giornata su diverse zone della città. Dalle macerie dei palazzi sventrati furono estratti circa 3000 morti e 11.000 feriti. Roma, poi, fu bombardata dagli Alleati altre 51 volte.
Noi abitavamo al nono piano e, ogni volta che suonava la sirena dell’allarme aereo, dovevamo scappare tutti nel rifugio sotterraneo della cantina scendendo di corsa e con grande agitazione venti rampe di scale.
Come mi è stato poi raccontato, nel rifugio molti pregavano; alcune mamme intrattenevano i bambini narrando favolette; altre cullavano i loro piccoli per farli addormentare. E quando suonava la sirena del cessato allarme, si tornava a casa, ringraziando Dio o la buona sorte per lo scampato pericolo.
Di notte vigevano il coprifuoco e l’oscuramento della città in funzione antiaerea. Ai vetri delle finestre si dovevano incollare fogli di carta pesante. Se qualcuno si azzardava a far trapelare una luce, veniva attaccato dai vicini al grido di “traditore”.
Il 10 settembre 1943, due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, le truppe tedesche occuparono Roma, e al terrore dei bombardamenti si aggiunse quello degli arresti in casa, delle retate per le strade e delle rappresaglie omicide contro la popolazione ad opera dei nazisti, per attentati e sabotaggi messi in atto dai partigiani.
Mio padre, maresciallo dell’Esercito in servizio al Ministero della Guerra, per essersi rifiutato di giurare fedeltà alla repubblica nazifascista di Mussolini, fu licenziato in tronco e corse anche il rischio di essere catturato dai tedeschi (i quali per fortuna non si misero a cercarlo) e “internato” in Germania, al pari di altri 650mila militari italiani. Grazie ad un amico, trovò poi un lavoro come guardiano di un ricovero antiaereo.
A quel tempo, i viveri scarseggiavano nei negozi ed erano razionati sulla base di tessere annonarie. Davanti ai panifici, si formavano file lunghissime, e gli ultimi arrivati restavano a mani vuote.
La mia famiglia pativa la fame, e tuttavia i miei genitori accolsero e nascosero in casa due nipoti calabresi ventenni, che studiavano a Roma ed erano ricercati dai nazifascisti come renitenti alla leva militare della Repubblica di Salò. Non so come, grazie a Dio, alla fine ci salvammo tutti quanti.
L’incubo della guerra finì per noi la sera del 4 giugno 1944, quando, dopo la ritirata dei tedeschi ottenuta dall’intercessione del papa Pio XII, le truppe degli Alleati entrarono a Roma senza combattere, accolte trionfalmente dalla popolazione. E a festeggiare i “liberatori” che passavano per via Gallia c’ero anch’io, in braccio al mio papà.
Nicola Bruni
Nella foto, “Nico” il 24 agosto 1943 a San Giovanni a Porta Latina.