I massacri di civili compiuti in Ucraina dalle truppe russe occupanti, e negati da chi ha scatenato l’invasione, richiamano la memoria storica di un’enorme strage di prigionieri polacchi compiuta dai sovietici durante la Seconda guerra mondiale. Stalin tentò di incolparne i tedeschi ma fu smascherato dalle prove esibite durante il processo di Norimberga.
L’eccidio di 22mila ufficiali polacchi, sepolti in fosse comuni nella foresta di Katyn, una località della Russia europea nei pressi di Smolensk, era stato scoperto nell’aprile del 1943 dai tedeschi, i quali ne avevano attribuito la responsabilità all’Armata Rossa.
L’esame necroscopico dei cadaveri rivelò che il massacro era avvenuto nel marzo del 1940, quando la zona di Katyn era in mano ai sovietici, e non durante l’occupazione tedesca, cominciata nel luglio 1941.
Ma che interesse avevano i russi a sterminare gli ufficiali dell’esercito polacco, nemico dei tedeschi invasori?
All’epoca dell’eccidio, la Polonia era stata invasa non solo dai tedeschi, ma anche dai russi, i quali con il patto Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939) si erano accordati con i nazisti per la spartizione dei territori polacchi.
Stalin intendeva russificare le province orientali della Polonia. Perciò ricorse a metodi analoghi a quelli del suo alleato di allora: infatti il massacro degli ufficiali fatti prigionieri nella Polonia orientale (tra i quali figuravano politici, giornalisti, professori e imprenditori richiamati alle armi) rientrava in un piano mirante a privare il popolo polacco di ogni capacità direttiva che potesse guidarne la resistenza.
I comunisti sovietici divennero “amici” dei polacchi solo quando Hitler, nel giugno 1941, violando il patto di non aggressione e tradendo la fiducia di Stalin, attaccò l’Urss. Ma i territori orientali della Polonia, già occupati con il beneplacito di Hitler, non li restituirono più.
Nicola Bruni