Domenica 12 giugno 2022 non andrò a votare per i cinque referendum sulla giustizia, e vi spiego perché.
Le riforme non si fanno a colpi di accetta, tagliando uno o più articoli di una legge e lasciando al loro posto un vuoto legislativo. Si fanno, bene o male, in Parlamento, discutendo, mediando tra le diverse posizioni e alla fine approvando un testo organico a maggioranza.
I cinque quesiti referendari proposti per l’abrogazione di norme in materia giudiziaria non sono una “riforma della giustizia”, ma dei tagli marginali alla normativa che non affrontano il problema cruciale delle lungaggini dei processi nel nostro Paese e non servono a migliorare il funzionamento dei tribunali.
Al contrario, due delle proposte abrogative, se approvate, peggiorerebbero la situazione. La prima, contro la “legge Severino”, consentirebbe a politici corrotti e condannati di mantenere cariche elettive e di governo o di candidarsi ed essere eletti a pubbliche funzioni. L’altra tende ad evitare la carcerazione cautelare preventiva anche a pericolosi delinquenti in attesa della conclusione – campa cavallo! – del terzo grado di giudizio.
La Costituzione prevede che i referendum abrogativi siano validi solo se vi partecipi almeno la metà più uno dei cittadini aventi diritto al voto. Dunque, legittima la non partecipazione di chi non sia interessato ai quesiti proposti. E poiché, tra gli italiani, i cittadini non interessati e quelli che, di questi referendum, non ci hanno capito nulla (nonostante le spiegazioni date in tv) sono “una marea”, il modo più sicuro per dire “no” è astenersi dal voto per far mancare il “quorum” e invalidare la consultazione.
La bocciatura di referendum come questi è anche un modo per scoraggiare il proliferare di iniziative referendarie costosamente inutili, promosse da politici che cercano di farsi pubblicità a spese di “Pantalone”.
Nicola Bruni