Lo avevo incontrato e salutato l’ultima volta alla fine del 2018 sulla porta della Basilica di Sant’Eustachio (tra il Pantheon e Palazzo Madama), della quale era rettore e che aveva trasformato in una “Casa della misericordia” per i poveri, realizzando nei suoi sotterranei una struttura con mensa, lavanderia, docce e luoghi di incontro.
Aveva battezzato i miei figli Paolo (1975) e Fabio (1979) nella chiesa della Natività in Via Gallia a Roma, dove è stato parroco per 37 anni (dal 1975 al 2012), don Pietro Sigurani, il “prete dei poveri e degli scartati”, ed eravamo amici. È volato in Paradiso lo scorso 4 luglio, all’età di 86 anni, 61 dei quali trascorsi da sacerdote. Ci eravamo conosciuti nei primi anni ’60, quando, giovanissimo, era insegnante di religione al liceo classico Augusto.
In precedenza, alla parrocchia della Natività, aveva fatto le cose ancora più in grande, a beneficio dei poveri, dei senzatetto e degli immigrati, istituendovi la “Domus caritatis”, in locali sotto la chiesa, con una mensa da 90 posti, un dormitorio da 20 letti, uno studio medico con macchinari per le malattie cardiovascolari, una doccia, una lavanderia per gli indumenti e il servizio di consulenza di un avvocato.
È stato più volte ospite di salotti televisivi, nei quali raccontava le sue esperienze di vita. A 8 anni aveva perso il padre nel bombardamento di San Lorenzo. “Mi sono occupato tanto di poveri e di immigrati – diceva – perché anche noi, in tempo di guerra, abbiamo sofferto la fame e siamo stati profughi e senza casa”.
La sua era una carità “del cuore”: “Se al povero offro un piatto di pasta – spiegò in un’intervista -, il povero deve avvertire, dal modo in cui glielo porgo, che glielo sto dando con amore”.
Nicola Bruni