Come abbiamo fatto a sopravvivere, da bambini, noi “di una certa”, nati negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso? Ogni tanto, tra amici, ce lo domandiamo sbalorditi.
Allora, non c’erano tante prescrizioni di legge e accortezze per la prevenzione degli infortuni e la tutela della salute. Viaggiavamo su tram con porte aperte, talvolta “attaccati” sul predellino; in auto che non avevano airbag né cinture né seggiolini di sicurezza; in bici o in Vespa senza casco; sul cassone scoperto di un’Ape o di un camioncino.
Andavamo a scuola da soli, o in giro fuori casa con i compagni. Giocavamo a palla in mezzo alla strada scansandoci quando passavano le macchine; scavalcavamo muri e cancelli per recuperarla. Ci esibivamo da coraggiosi camminando sulle spallette dei ponti. Scimmiottavamo “I ragazzi della Via Pal” battagliando a sassate. E non c’era nessuno che ci sorvegliasse.
Se ci scorticavamo un ginocchio, disinfettavamo la ferita con la saliva. Bevevamo l’acqua da un tubo di irrigazione del giardino o un sorso di gazzosa tutti dalla stessa bottiglia. Mangiavamo cibi confezionati che non avevano indicazione di scadenza. Sopportavamo la calura estiva privi di aria condizionata.
I nostri giocattoli potevano essere dipinti con vernici nocive. Le nostre mamme ci stiravano i vestiti su una tavola ricoperta di amianto. Al posto della carta igienica usavamo le schedine del Totocalcio. A scuola, consumavamo la merenda con mani non lavate. Gli insegnanti erano liberi di fumare in classe. E se il maestro ci mollava una sberla, i nostri genitori ci dicevano: “Ha fatto bene, così impari!”.
Ma poi che cosa dovevamo imparare? Innanzi tutto, a morire già da piccoli, secondo la retorica in voga nella scuola di quei tempi: “Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò!”.
Invece, l’abbiamo scampata bella, noi “di una certa” che possiamo raccontarla.
Nicola Bruni
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Nella foto: così ci attaccavamo al tram, adulti e bambini, negli anni del dopoguerra a Roma.