(8 ottobre 2022)
Da bambino, mi avevano insegnato la canzoncina “È arrivato l’Ambasciatore / con la piuma sul cappello, / è arrivato l’Ambasciatore / a cavallo d’un cammello…”. Chiesi alla mamma, che me lo spiegò, che cosa fosse un ambasciatore.
Quel titolo di ambasciatore continuò a frullarmi nella testa, fino a che, negli anni del liceo, alla domanda “Che cosa farò da grande?”, mi diedi decisamente questa risposta: “Voglio diventare un ambasciatore dell’Italia all’estero”. Parigi, Bonn, Londra, Washington sarebbero state le tappe da me più ambite di una carriera diplomatica alla quale dovevo cominciare a prepararmi presto.
Perciò, cominciai ad approfondire quel poco di inglese che avevo appreso alle medie e al ginnasio, e a studiare da principiante il francese e il tedesco, seguendo i corsi delle tre lingue straniere che la Rai offriva, in alternanza, ogni mattina dalle 6,45 alle 7, con l’aiuto dei rispettivi libri di testo pubblicati dalla Eri.
Mi informavo sulla politica estera leggendo i giornali e la rivista mensile Relazioni internazionali, alla quale mi ero abbonato. E cercavo di ampliare i miei orizzonti culturali dedicandomi ad una lettura programmata di romanzi dei più importanti autori stranieri. Poi, conseguita la maturità classica, mi sarei iscritto al corso di laurea in Scienze politiche.
Ma c’era un difficile problema da risolvere: per svolgere degnamente il ruolo di ambasciatore, mi sarei dovuto procurare una “lady di rappresentanza”, una consorte che mi affiancasse e mi facesse fare bella figura nei ricevimenti ufficiali. E in quegli anni non ne vedevo nessuna al mio orizzonte.
Dopo tanto impegno, giunto alle soglie degli esami di maturità, ci ripensai. Mi dissi: “Io voglio formarmi una famiglia. Che vita da migranti farei fare a mia moglie e ai miei figli dovendomi spostare periodicamente, come diplomatico, da una capitale all’altra? La famiglia è più importante di una prestigiosa carriera”. Perciò, riposi, metaforicamente, quel sogno nel cassetto, e mi iscrissi alla facoltà di Lettere.
Divenuto “grande” già a 19 anni, mi misi a fare il giornalista, mentre studiavo all’università, e poi anche il professore. Finché, all’età di 32 anni, il Signore mi concesse la grazia di incontrare il grande amore e di sposare Elina, una splendida ragazza di Catania, che avrebbe potuto essere anche una “lady di rappresentanza” in eventuali ricevimenti ufficiali.
L’occasione capitò il 31 maggio del 1990, quando io fui invitato con “Signora” in qualità di giornalista del quotidiano Il Giorno ad un sontuoso ricevimento ufficiale nella Villa Attolico (attuale residenza dell’ambasciatore del Giappone), nei pressi di Porta Latina a Roma, durante una conferenza dei ministri europei della Ricerca scientifica.
Quella sera presentai la mia “lady” al ministro italiano Antonio Ruberti (futuro vicepresidente della Commissione europea), che conoscevo fin da quando era rettore dell’università Sapienza.
Seppi, poco dopo, dal suo addetto stampa che il ministro aveva commentato quell’incontro con Elina dicendo: “Quanto è bella la moglie di Bruni!”.
Quel commento ci rese orgogliosi. La mia lady e io ci scambiammo un bacio, e tornammo a casa felici e contenti.
Nicola Bruni
*
Nella foto: Elina nel giardino di Villa Attolico a Roma, la sera del 31 maggio 1990.