“A regazzì, se vvengo llì, t’appiccico ar muro, te lascio llì, n’te pijo più”. Era un ritornello in dialetto romanesco, tra lo scherzoso e il minaccioso, che circolava tra noi “regazzini de Porta Metronia”, a Roma, negli anni a cavallo del 1950: scolari della Manzoni, frequentatori dell’oratorio della Natività, “pischelli” che bazzicavano da soli nella zona di Via Gallia. Da rivolgere a chi venisse a disturbare i giochi che facevamo per la strada senza che nessun adulto – genitore, nonno o baby-sitter – ci sorvegliasse.
In effetti, ogni tanto c’era qualcuno, nella compagnia, che si divertiva a provocare: per esempio, toglieva il berretto a uno di noi e lo lanciava in aria gridando: “Alla quaglia, alla quaglia, chi se lo piglia, se la squaglia!”. Poi, gli altri se lo passavano, inseguiti dal malcapitato. Oppure arrivavano un paio di bulletti più grandi, che si impadronivano della nostra palla e se la tiravano a vicenda facendoci arrabbiare. A noi, piccolini, non restava che minacciarli: “Ahò, faccio venì mi’ padre che ve fa un bucio così!”. Ma nessun padre si profilava all’orizzonte.
Non di rado, mentre si giocava, si finiva per bisticciare, magari perché qualcuno non aveva rispettato le regole. E allora ci scambiavamo insulti eufemistici, da bambini educati a non dire parolacce, del tipo “vaffallovo”, “vaffancina”,“strómbolo”, “te possino ammaì” (invece che “ammazzà”), “tacci tua” (invece che “mortacci tuoi”). Le repliche della controparte, di solito, erano: “vacce te”, “ce sei”, “li tua e de tu’ nonno in cariola”.
A volte si bisticciava di brutto, fino al punto di decidere una rottura del rapporto di frequentazione tra compagni. E allora si usava pronunciare una frase rituale, in tono solenne e cantilenante, mentre si baciavano a mo’ di giuramento due diti incrociati: “Col-le-rà / per sèmpre! / Col-le-rà / per sèmpre!”. Quella “collera”, però, durava al massimo una giornata. Poi ci si dimenticava di avere litigato e si tornava a giocare insieme.
Nicola Bruni