Era al numero civico 44 del Largo Goldoni, attraversato dalla Via del Corso al centro di Roma, la Redazione romana del quotidiano Il Giorno, nel novembre del 1980, quando cominciai la mia collaborazione, durata poi 17 anni, con quel giornale prestigioso, stampato a Milano. Mi ci aveva chiamato il vicedirettore Pierluigi Magnaschi, che mi conosceva come giornalista specializzato nel campo scolastico e universitario.
A quel tempo Il Giorno, di proprietà dell’Eni, era diretto dal grande Guglielmo Zucconi, e vantava circa 200mila copie di tiratura, diffuse su tutto il territorio nazionale. Era l’unico tra i giornali italiani con foto a colori nella prima pagina e con titoli di richiamo non burocratici. Inoltre, dava molta importanza e risalto ai problemi della scuola.
Capo della Redazione romana era Giorgio Vecchiato, il quale mi mise subito alla prova e fece presto ad accorgersi che non ero un “raccomandato” incapace ma un professionista esperto e competente.
Vecchiato mi spiegò che in ogni pezzo proposto ci doveva essere la “notizia” e che questa doveva essere anticipata nelle prime righe e poi sviluppata in quelle successive. Avrei dovuto contenere la trattazione, anche di argomenti molto complessi, esattamente in 50 righe dattiloscritte, pari a 3000 battute, perché – diceva – “alla cinquantunesima riga il lettore comincia ad annoiarsi”.
Questo comportava un lavoro di limatura del testo più lungo e impegnativo rispetto alla sua stesura: via i giri di parole, via gli aggettivi e gli avverbi superflui, via le informazioni non essenziali. Alla fine, doveva rimanere un’esposizione scorrevole, densa di fatti, di curiosità e di frasi ad effetto.
Continuai a lavorare per il Giorno, come collaboratore fisso esterno per l’informazione su scuola, università e mondo giovanile, fino a giugno del 1997, quando il nuovo editore, che aveva acquistato la testata dall’Eni, chiuse la Redazione romana e ridimensionò la diffusione del giornale in un ambito milanese e lombardo. Non chiesi mai di essere assunto a contratto, perché in tal caso, come professore di ruolo, avrei dovuto lasciare la scuola, alla quale tenevo molto.
Nei primi anni, portavo il dattiloscritto di ogni articolo in redazione, dove veniva copiato da un telescriventista e trasmesso alla Redazione centrale di Milano. Poi, a partire dal 1985, fui dotato di un computer portatile Olivetti collegato ad un accoppiatore acustico, sul quale dovevo poggiare la cornetta di un telefono fisso e digitarvi il numero che avrebbe fatto scattare la trasmissione telematica del testo. Perciò, potevo lavorare da casa o trasmettere dalla sede di un convegno.
Molti articoli li scrissi direttamente nella Redazione romana, dove potevo attingere alle notizie delle agenzie di stampa. Imparai, allora, ad isolarmi mentalmente, mentre scrivevo, rispetto al vociare e alla confusione che c’era intorno a me. Mi capitò più volte di lavorare nella stessa stanza con colleghi poi divenuti molto importanti, come Davide Sassoli, Massimo Franco, Maria Teresa Meli, Guido Bossa, Adele Cambria.
Conclusa quella esperienza, chiesi e ottenni dalla nuova gestione della testata una congrua liquidazione monetaria per la mia “collaborazione coordinata e continuativa”, sulla base di 2426 articoli pubblicati da Il Giorno con la mia firma, molti dei quali collocati o “strillati” in prima pagina.
Nicola Bruni