“Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?”. È una delle 126 interrogazioni, riferite nei racconti evangelici, delle quali Gesù si serve come strumento didattico per insegnare la sua dottrina. Le contò e analizzò il grande pedagogista Gesualdo Nosengo (1906-1968) in un ampio studio del 1967, che è stato poi riproposto in sintesi nel volume “L’arte educativa di Gesù”, a cura di Olinto Dal Lago (Elledici).
Molte di quelle domande non aspettano una risposta, ma sostituiscono un’affermazione, al fine di stimolare l’attenzione e la riflessione negli uditori (“Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito in giorno di sabato?”).
Altre sono usate per addolcire un rimprovero (“Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio dell’Uomo?”) o una correzione (“Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”), per contestare un gesto di violenza (“Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?”), per replicare in modo disarmante a una domanda provocatoria (“Che cosa vi ha comandato Mosè?”).
A volte, il Maestro interroga il suo interlocutore per impegnarlo a dire quello che lui già sa (Al cieco nato: “Che cosa vuoi che io ti faccia?”. All’adultera: “Dove sono quelli che ti accusavano? Nessuno ti ha condannato?”. A Pietro:“Mi ami tu?”).
Nosengo osserva che per verificare l’efficacia comunicativa della domanda basterebbe, in certi casi, sostituirla con una frase affermativa e confrontarne i diversi effetti. A suo giudizio, i maggiori svantaggi da un punto di vista educativo, con la forma affermativa, si avrebbero nella correzione, che perderebbe quel tono delicato, amoroso, persuasivo, esortante, incoraggiante che ha la forma interrogativa nei discorsi di Gesù.
Nicola Bruni
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Nella foto, Gesù tra gli apostoli, affresco di Masaccio nella cappella Brancacci della chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze.