Fine giugno 1955. Avevo terminato da poco gli esami di licenza media, a Roma, nella nuova sede della scuola Pascoli in Via Sibari (quartiere Latino Metronio). Sotto il porticato d’ingresso, entrai in conversazione con un gruppetto di ragazze, che come me erano in attesa della pubblicazione dei “quadri”. Tra loro c’era Isabella, una biondina alta e spigliata, che a un certo punto mi invitò a una festa di fine anno scolastico organizzata a casa sua.
Rimasi piacevolmente sorpreso. Era la prima volta che ricevevo un invito del genere da una “femmina”. Al momento, io non avevo amicizie dell’altro sesso, oltre le quattro ragazzine del mio palazzo di Via Licia, che conoscevo fin da piccolissime e, perciò, non prendevo in considerazione.
Sino ad allora, nella scuola e all’oratorio, avevo vissuto una netta separazione tra maschi e femmine. Il mondo delle mie coetanee mi appariva misterioso e tutto da esplorare.
Ricordo che, in quell’ultimo anno delle medie, la mia classe condivideva la palestra della scuola nelle ore di ginnastica con una classe femminile. Ed era per noi maschietti uno spettacolo inedito: le ragazze, infatti, dovevano indossare una maglietta bianca e calzoncini neri fermati con elastico sopra le ginocchia, e durante gli esercizi mettevano in evidenza le attraenti curve dei loro corpi.
La festa era in una abitazione di Via Sant’Erasmo, al di là di Porta Metronia. C’erano le compagne di classe di Isabella ed erano stati invitati con me altri maschi. Si ballava con i dischi. Io avevo imparato a ballare nell’estate precedente a Fregene, con il jukebox, nello stabilimento balneare delle famiglie dei militari dell’Esercito. Mi aveva fatto da maestra una gentile “signorina” di nome Titti, con la quale ero entrato in simpatia.
Tra le ragazze presenti, me ne piaceva particolarmente una: si chiamava Anna, capelli neri a caschetto, occhi neri, uno sguardo dolce, timida come me. Ballai con lei più che con le altre. E a festa finita la accompagnai a piedi fino al portone di casa, in Via di San Giovanni in Laterano. Ci salutammo con una stretta di mano e un sorriso.
Poi mi accorsi che avevo preso una cotta per lei. Pensavo a quella ragazza giorno e notte. Avrei voluto incontrarla di nuovo, ma non sapevo come fare. Allora andai ad appostarmi, due volte, davanti al suo palazzo, sostando per ore, nella speranza di vederla uscire. Invano. Non la rividi più.
Nicola Bruni
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Una mia foto dell’ottobre 1955, a 14 anni.