“Caro Papà e cara Mamma…”. Ho ritrovato una “letterina di Natale” del 1950, che scrissi anche a nome della sorellina e del fratellino. Come si usava allora, il testo mi era stato suggerito dal maestro di quarta elementare. Mio padre finse di scoprirla sotto il suo tovagliolo, al momento di sedersi a tavola per il cenone della Vigilia, a Roma nella casa di Via Licia 54. E la lesse ad alta voce con i lucciconi agli occhi: “Vi vogliamo tanto bene. Vi ringraziamo di tutti i sacrifici che fate per noi. Vi promettiamo di essere buoni, ubbidienti e studiosi. Preghiamo Gesù Bambino che Vi faccia vivere a lungo, felici e in buona salute. I Vostri affezionatissimi figli Nico, Mariuccia e Antonio”.
Seguirono abbracci e baci, e una regalìa natalizia di 100 lire a ciascun figlio. Poi, una lunga cena composta “secondo la tradizione” da “dodici portate di magro”, tra le quali contavamo anche le acciughe sotto sale, i sottaceti, le olive, i fichi secchi con le noci, i fichidindia, il torrone, il panettone.
Sparecchiata la tavola, giocammo a tombola con i vicini di casa, e ad ogni numero estratto mia madre dava il nome della “smorfia”: 13, Sant’Antonio; 1, l’Italia; 90, la paura; 48, morto che parla…
Davanti a noi c’era un bel presepe, con Maria e Giuseppe in attesa. Come ogni anno, l’aveva costruito papà: con le montagne di sughero, il muschio, il cielo stellato, la cometa, le casette e le statuine di creta, che noi bambini cambiavamo frequentemente di posizione. Il fratellino di quattro anni ci aveva messo anche il suo Toro Seduto, un indiano a cavallo. Le statuine erano fragili e, negli spostamenti, spesso cadevano e si rompevano.
A mezzanotte, la cerimonia della deposizione del Bambinello nella mangiatoia, con il canto di “Tu scendi dalle stelle”.Infine, la recita, da parte del fratellino, di una poesia imparata all’asilo, che parlava del “due e l’asinello”. “Il bue”, tentai di correggerlo. “No, il due ha detto la maestra”.
Nicola Bruni
Nella foto del 1950, Mariuccia, Nico e Antonio.