L’anno vecchio doveva essere cacciato via. In base a questa idea, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso (forse anche prima), a Roma si usava buttarlo simbolicamente dalle finestre dei palazzi intorno alla mezzanotte del 31 dicembre servendosi di tutto ciò che si aveva in casa di vecchio e inutile. Ciarpame che spesso veniva messo da parte nelle settimane precedenti per potersene disfare, con divertimento, in quella occasione.
Per noi ragazzi, particolarmente, era uno spasso. Le famiglie facevano a gara, in allegria, a chi buttava di più: bottiglie vuote, piatti e bicchieri scheggiati, pentole e padelle ammaccate, stoviglie di plastica, indumenti logori, sedie spagliate, sacchi pieni di rifiuti… Qualcuno esagerava scagliando al suolo dall’alto un cassettone, un televisore rotto o addirittura una tazza di gabinetto.
Non ci si poneva problemi di ecologia ambientale, poiché si pensava che già nel corso della notte sarebbero intervenuti gli spazzini, appositamente inviati e pagati dal Comune a ripulire le strade, rese impraticabili dai “cocci”.
I pochi che, in quegli anni, possedevano un’automobile, la sera del 31 la riparavano in un garage o cercavano di allontanarla dalle finestre, altrimenti avrebbero rischiato di ritrovarla danneggiata. Chi doveva tornare a casa in macchina da una festa in casa d’altri o da un veglione doveva mettere in conto almeno una foratura da vetri di bottiglia.
Quello scempio – che, allora, alla maggior parte dei romani sembrava invece una bella tradizione – andò riducendosi e si esaurì del tutto nel corso degli anni, a mano a mano che aumentavano le auto parcheggiate nelle strade e non si trovavano più posti per metterle al sicuro, lontano dalle finestre, la notte di Capodanno.
Allora, più che nei cittadini, maturò negli automobilisti il senso civico del rispetto per le macchine degli altri, sulle quali, dalle finestre soprastanti, non bisognava buttare più nulla.
Nicola Bruni