“Pellerossa” e “visi pallidi”: così si chiamavano a vicenda, nei fumetti e nei film western della mia infanzia, da una parte gli indigeni amerindi, comunemente detti “indiani”, e dall’altra i coloni americani di origine europea.
I primi, che difendevano la loro terra, interpretavano il ruolo dei nemici cattivi, mentre gli invasori del Far West venivano presentati come “i nostri”, i buoni, per i quali tifare.
In questo modo, la mia generazione di bambini fu subdolamente educata al razzismo.
L’appellativo “visi pallidi” mi torna in mente, per contrasto, ogni volta che sento definire “di colore” – secondo un lessico reputato antirazzista – persone dalla pelle più o meno scura, che non siano solo temporaneamente abbronzate.
E allora vorrei far osservare che anche il bianco è un colore, e che i cosiddetti “bianchi” sono più colorati dei cosiddetti “neri”: sono infatti di molte varietà di colore tra il bianco, il roseo con tratti di rosso, il beige e l’olivastro nella pelle più o meno chiara, e di diversi colori negli occhi e nei capelli.
Perciò, distinguere tra persone “di colore” e “non di colore” è un errore, frutto di un pregiudizio.
Riferendosi ai di colori della pelle, una volta i libri di scuola dividevano l’umanità in quattro razze principali: bianca, nera, gialla e rossa.
Così mi fu insegnato da bambino: poi, da adulto, mi accorsi che mi avevano imbrogliato, constatando che in realtà il colore prevalente tra gli africani è il marrone, che cinesi e giapponesi non sono gialli (tranne che abbiano l’itterizia) ma più pallidi dei “visi pallidi”, e che i “pellerossa” amerindi non riescono neppure ad arrossire.
Appresi anche che le razze sotto i profili biologico, sentimentale ed emotivo non esistono.
“Augh!”, come diceva in conclusione il Grande Capo dei Sioux Toro Seduto.
Nicola Bruni
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Nelle foto, il “pellerossa” Toro Seduto e il “viso pallido” John Wayne.