La sera dell’11 settembre 1960 era in programma allo Stadio Olimpico di Roma la cerimonia conclusiva dei Giochi della XVII Olimpiade. L’evento mi aveva attratto mentre accompagnavo la mia amica fiorentina Donata Gargani a fare un giro turistico della città. Ci avvicinammo allo stadio, e con nostra grande sorpresa trovammo i cancelli aperti e incustoditi: gli incaricati del controllo dei biglietti se l’erano squagliata, pochi minuti dopo l’inizio della festa olimpica, per andare a godersela dagli spalti. Fu così che noi due potemmo entrare gratis e ammirare dal vivo la sfilata degli atleti, il gioioso sventolio delle bandiere, le coreografie, i giochi di luci e colori e la grandiosa parata finale di fuochi d’artificio: uno spettacolo meraviglioso e indimenticabile.
Quella con Donata è la più antica tra le mie attuali amicizie femminili, un’amicizia disinteressata, basata sulla simpatia e la stima reciproche, che ebbe inizio nel 1957, quando io avevo 15 anni. Mi fu presentata da un mio cugino, in occasione di una delle sue ricorrenti visite a Roma, dove aveva una zia che la ospitava. Trovammo subito una consonanza di idee, di educazione e di sensibilità, che ci indusse a intraprendere una corrispondenza epistolare, corroborata da incontri saltuari ora a Roma ora a Firenze.
Alla fine di luglio dello stesso anno 1960 – prima delle Olimpiadi – ero andato io a farle visita a Firenze. I suoi genitori mi invitarono a pranzo, accogliendomi con cordialità in una casa lussuosa, nella quale rimasi particolarmente colpito dall’anta scorrevole di una credenza-bar che si apriva e si chiudeva mediante un pulsante elettrico (una novità per quei tempi).
La mamma di Donata era una signora raffinata dell’alta borghesia. Il papà era un notaio, e anche un bell’uomo, moderno, con gli occhi azzurri, molto diverso dall’idea antiquata di notaio con il “mantello a ruota” che mi ero fatto ascoltando da mia madre la canzone “Signorinella pallida”.
Serviva a tavola una ragazza in uniforme da cameriera con una crestina bianca in testa. Io, venendo da una famiglia di persone semplici che badavano poco all’etichetta, mi trovai in imbarazzo poiché temevo di non riuscire a usare in maniera appropriata coltello e forchetta per sbucciare la frutta, e per non rischiare una brutta figura rinunciai a mangiarla.
Nella conversazione raccontai degli esami di maturità classica che avevo da poco superato, del giornalino del mio liceo che avevo diretto per tre anni, e del viaggio in autostop attraverso l’Europa che avrei cominciato, zaino in spalla, l’indomani mattina dalla Svizzera per arrivare fino ad Amsterdam, dopo aver raggiunto in treno il confine di Chiasso. A quest’ultimo racconto, i genitori di Donata si mostrarono preoccupati per i pericoli ai quali io, che avevo appena 18 anni, andavo incontro affrontando una tale avventura. Da parte mia, cercai di rassicurarli, dicendo che avevo fatto già un viaggio con il pollice alzato l’anno precedente, da Cortina d’Ampezzo a Saint-Tropez e dalla Costa Azzurra a Roma, e mi era andato tutto bene. La sera mi accompagnarono al treno e mi salutarono ansiosi, con un groppo alla gola, come se fossi un loro “figliolo”.
In seguito, Donata mi fece conoscere il suo fidanzato, Adriano Simoni, che ora è suo marito, e nel 1966 mi invitò al loro matrimonio, celebrato a Firenze.
Oggi, Donata è nonna di quattro ragazzi, due femmine e due maschi, nati da un figlio e da una figlia, sulle cui vicende mi tiene al corrente in lunghe conversazioni telefoniche.
Oltre a fare la moglie, la mamma e la nonna, nella sua vita si è dedicata alla scrittura di racconti e di poesie, che ha pubblicato, anche in antologie per le scuole, e con le quali ha vinto dei premi letterari.
Quando ci sentiamo al telefono, ci meravigliamo entrambi che la nostra amicizia abbia raggiunto la durata di 67 anni e che – per grazia di Dio – alla nostra età possiamo ancora raccontarci in buona salute.
Nicola Bruni
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Nella foto, la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Roma del 1960.