“Ti mando nel Congo”

Viaggiavamo in treno da Milano a Roma, mia moglie ed io, nel 1997. Alla stazione di Bologna, venne a sedersi di fronte a noi un distinto signore africano. Alto, robusto, di un’età intorno ai 50, con un faccione gioviale color cioccolato, somigliante a quello del famoso jazzista afroamericano Louis Armstrong, che era stato uno dei miei miti musicali negli anni ’60.

Ci scambiammo un sorriso di saluto. Poi quel signore volle presentarsi, e cominciò a raccontarci i fatti suoi. Era un medico, originario del Congo, che lavorava come cardiochirurgo in un ospedale di Bologna, la città in cui si era laureato in Medicina molti anni prima. Era rimasto a vivere in Italia perché nel suo Paese era in corso una pericolosa guerra civile. 

Associai mentalmente alla parola Congo il ricordo di una canzoncina razzistella che, quando ero ragazzo, veniva spesso suonata dai juke-box: “Oh, bongo bongo bongo, stare bene solo al Congo, non mi muovo no no. Bingo bango bengo, molte scuse ma non vengo, io rimango qui. No bono scarpe strette, saponette, treni e tassì. Ma con questa sveglia al collo stare bene qui”.

Allora, osservando quel distinto signore del Congo, notai che – diversamente dall’immaginario “bongo bongo” della canzone – non portava al collo una sveglia ma una cravatta alla moda, non era scalzo ma indossava un bel paio di scarpe di pelle, non si esprimeva alla “bingo bango bengo” ma in perfetto italiano, e sicuramente non disdegnava saponette, treni e tassì: insomma, non era un primitivo, ma una persona colta, evoluta e di buon livello intellettuale, che diceva di non “stare bene lì nel Congo, no no”.

La conversazione si spostò sui nostri figli. Lui ne aveva uno di 11 anni, nato e cresciuto a Bologna, che si era completamente omologato ai suoi coetanei italiani e non ne voleva sapere di trasferirsi nel Paese di origine dei genitori. “Perciò, quando lui si comporta da discolo – disse ridendo – io lo minaccio: ‘Ti mando nel Congo!’ Ah! Ah! Ah!”.

“Come sono cambiati i tempi!”, commentai io. Infatti, lo spauracchio punitivo che veniva evocato per i ragazzi discoli della mia generazione era: “Ti mando in collegio!”. O addirittura: “Ti chiudo in un riformatorio!”.

Nicola Bruni

Nella foto, il citato Louis Armstrong (1901-1971).