Promosso a giugno agli esami di terza elementare con “otto” in tutte le materie, mi attendeva nella quarta classe della mia sezione, alla Manzoni di Roma, un maestro che aveva la fama di “cattivo”.
Un mio amichetto più grandicello, e birbaccione, me lo aveva descritto come un orco manesco, che tirava le orecchie e dava bacchettate agli scolari, oppure li castigava facendoli stare in ginocchio sui ceci, o in piedi dietro la lavagna, o fuori della porta, come si usava a quei tempi. Il pensiero che sarei capitato sotto le sue grinfie mi terrorizzava.
D’altra parte, l’amichetto birbaccione (che, tra parentesi, si vantava di averne combinate in classe “di cotte e di crude”), quando gli riferii quella scena, ribatté: “Lui fa così pe’ fasse vedé ch’è bbono, invece è cattivo”.
In realtà, quel maestro “cattivo” era soltanto burbero; e, a differenza di alcuni suoi colleghi, non insultava mai gli alunni e non usava esporre i “somari” alla berlina con il cappello dalle orecchie d’asino in testa.
Della sua severità ho due ricordi indelebili. Una volta che, in un tema, mi scappò di scrivere “misimo” anziché “mettemmo”, lui fece una tale “tragedia” che mi sarei sotterrato per la vergogna.
Un’altra volta, mi inflisse un giorno di sospensione perché, dopo il suono della campanella di uscita, avevo osato abbaiare (“bau bau”) di gioia. Io, però, non lo dissi ai miei genitori e l’indomani restai a casa fingendo di sentirmi male.
Comunque, di solito, il giudizio che quel “Signor Maestro” esprimeva sul mio profitto nei colloqui con mia madre era: “Non c’è malaccio”.
Nicola Bruni
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Nella foto, io sono il primo della seconda fila.