Era il tempo delle mele per gli studenti del Liceo sperimentale Cicero, a indirizzo botanico-vegetariano. Una scuola statale frequentata dal fior fiore della gioventù del circondario, figli di alti papaveri e rampolli di famiglie con albero genealogico di legno pregiato. Ai ragazzi era cresciuto il pomo d’Adamo, mentre le fanciulle, sbocciate alla primavera della vita, andavano in cerca del frutto proibito. E purtroppo non mancava qualche mela marcia, che di nascosto si faceva le pere. I genitori degli alunni piantavano continuamente grane, per cui gli insegnanti erano indotti a procedere cum grano salis, evitando di dire pane al pane e vino al vino, per non addentare il pomo della discordia e invischiarsi in un ginepraio.
“Hoc malum est”, sentenziava di tanto in tanto la professoressa Agricola, docente di latino maccheronico, volendo significare, secondo le circostanze: “Questo è un male” o “Questa è una mela”. E gli studenti commentavano: “Cioè… idem con patate”. D’altra parte, la professoressa Oliva, docente di cultura vegetale e vegetariana, osservava che la maggior parte della scolaresca aveva una preparazione all’acqua di rose, consistente in un’infarinatura a macchia d’olio, senza sugo, con poco sale in zucca e molta aria fritta.
Tra gli alunni del corso Vitamina C, c’era una Melania deliziosa che aveva preso una cotta per il professor Cucuzza, giovane docente di storia dell’arte… di arrangiarsi (in dialetto, aranciarsi). La bella figliuola, che aveva il naso a patatina, coltivava con passione la materia di Cucuzza, anche se le sue lezioni erano una pizza; ma una volta che fu interrogata da quel fusto, s’impappinò, divenne rossa come un peperone e rispose a sfagiolo: “Tutto il cucuzzaro!”.
Sulle prime il prof prese d’aceto con la ragazza, che pertanto stava sulle spine, ma poi capì che la risposta non era farina del suo sacco (gliel’aveva suggerita qualche malerba) e, intenerendosi come una patata lessa, sussurrò a quel bocconcino che… lasciava molto a desiderare.
Ai primi di febbraio, terminata la semina della campagna per le iscrizioni, il preside Farina, una pasta d’uomo con le mani in pasta, informò il collegio dei docenti che la cassa dell’istituto era rimasta a secco, perché erano cessati i contributi a pioggia del Ministero. “Abbiamo investito – disse con la bocca impastata – tutte le nostre risorse culturali nell’attività di ricerca, per rendere competitivi sul mercato alcuni prodotti locali: in particolare, broccoli, rape e zucconi dalla coccia dura. Ma non sempre le ciambelle vengono con il buco. E ora siamo alla frutta”.
Quindi snocciolò un grappolo di accuse piuttosto pepate: “Della scuola – disse – non importa un fico secco ai nostri governanti, che dei problemi scolastici non capiscono un cavolo. Con l’autonomia hanno fatto a scaricabarile, passando a noi, poveri citrulli, la patata bollente del finanziamento degli istituti, come se i soldi fossero bruscolini. Insomma, ci hanno infinocchiati”.
Nicola Bruni