Sono andato a fare un breath test (esame del respiro) per controllare se ho ancora l’intolleranza al lattosio che mi è stata diagnosticata due anni fa a seguito di un’infezione intestinale. È una prova che dura quattro ore, durante le quali bisogna soffiare per otto volte a intervalli di mezz’ora dentro un palloncino dopo aver bevuto un liquido contenente lattosio.
Seduta su un divano accanto a me, nel laboratorio romano di analisi, c’era una distinta signora sui 60 anni, che aspettava per completare lo stesso test. L’ho sentita parlare al telefono con una figlia, della “nonna” ricoverata in ospedale, e affetta da leucemia, per la quale è stata emessa una diagnosi infausta.
Diceva: “Dobbiamo portarla a casa sua, perché possa vivere gli ultimi giorni nel suo ambiente e morire nel suo letto. Uno di noi, a turno, deve trasferirsi a casa della nonna per tenerle compagnia. Una persona malata terminale ha bisogno di sentirsi amata, coccolata, accompagnata nel passaggio verso la vita eterna, anche con il conforto dell’Eucarestia. Gesù ci ha fatto il dono di mantenere in vita la nonna così a lungo, e noi dobbiamo considerare ogni giorno in più della sua vita come un dono. Dobbiamo manifestare alla nonna tutto il nostro amore e la nostra gratitudine per il bene che ci ha fatto. Dobbiamo coccolarla fino all’ultimo suo istante di vita”.
Ascoltando quelle parole, mi sono commosso, e ho dovuto asciugarmi una lacrima. Avrei voluto abbracciare quella mamma che dava alla figlia una così alta lezione di umanità.
Mi sono tornati in mente gli ultimi mesi di vita della mia Elina, che si andava spegnendo a poco a poco per una paralisi progressiva, assistita amorevolmente nella nostra casa da me, dai figli e da cinque badanti che si avvicendavano. Io le tenevo una mano, la accarezzavo, la baciavo, le dicevo paroline dolci, le facevo ascoltare, tra le altre, quella canzone che dice “Avrò cura di te, perché sei un essere speciale”.
Nicola Bruni
*
Nella foto, il nipotino Gabriel bacia la nonna Elina ammalata, il 3 luglio del 2020.