Cultura senza barba

Nel corso della mia lunga vita, non mi sono mai fatto crescere la barba né i baffi, neanche per prova. E quando mi sono mascherato per Carnevale, da bambino o in età giovanile, non mi è mai sconfinferata l’idea di camuffarmi con barba o baffi finti. 

Sono abituato a radermi il viso tutti i giorni, perché non mi piace vedermi allo specchio o comparire in pubblico con un aspetto trascurato. 

Capisco che lasciarsi crescere la barba può rappresentare una comodità e un risparmio di tempo, perché evita la rasatura quotidiana. Ma io preferisco assoggettarmi a questa incombenza per avere sempre una faccia “pulita”.

Inoltre, immagino che non mi sarebbe piaciuto avere, nelle effusioni con la mia sposa, l’incomodo di una barba tra guancia e guancia o tra bocca e bocca.

Non discuto i gusti degli altri, in particolare di chi considera i baffi un complemento di virilità o di chi indossa la barba come un abito di maturità, di autorevolezza o di saggezza. Osservo soltanto che spesso la barba, specie se tende a imbiancare, fa apparire l’uomo più vecchio dei suoi anni.

Peraltro, la parola barba, nella scuola, è associata a lezioni noiose: “Che barba!”, si usa dire. Per questo motivo, io da insegnante e da scrittore, ho propugnato l’idea di una “cultura senza barba”, cioè impartita in maniera vivace, attraente, interessante, persino spiritosa. E a questo proposito ho, significativamente, sottotitolato “Spirito e materie” il mio libro di racconti scolastici “Ad cathedram” pubblicato nel 2004. 

Nicola Bruni