L’invettiva-profezia di Martin Luther King.
Torna d’attualità negli Stati Uniti, in tempo di coronavirus, l’invettiva lanciata da Martin Luther King durante un sermone che tenne come pastore protestante a Memphis nel 1968, pochi giorni prima di essere ucciso: “Il ricco Epulone della parabola evangelica non finì all’inferno perché era ricco, ma perché rifiutò di usare la sua ricchezza per sfamare il povero Lazzaro. Ora io vengo qui a dire che anche l’America andrà all’inferno se non userà le sue immense risorse di ricchezza per mettere fine alla povertà e rendere possibile a tutti i figli di Dio di soddisfare i bisogni elementari della vita”.
Tra i bisogni elementari della vita c’è quello di essere curati in caso di malattia, un diritto che nell’America di Trump non è garantito a decine di milioni persone prive di un’assicurazione sanitaria privata. Come si è visto nelle immagini trasmesse dalle tv, che hanno scandalizzato Papa Francesco, di un gran numero di persone senzatetto sfrattate da un ostello cattolico chiuso per coronavirus, deportate in un parcheggio e sdraiate sull’asfalto, nella ricca città di Las Vegas, che in questo periodo ha tanti alberghi completamente vuoti.
Il parcheggio di Las Vegas dove sono stati parcheggiate molte persone senzatetto nella situazione di emergenza per il coronavirus che ha colpito anche quella ricca città.
Ricordo che King, assassinato da un razzista bianco, era il leader della lotta non violenta condotta negli Stati Uniti dal movimento per i diritti civili degli afroamericani, allora soggetti a pesanti discriminazioni in quel grande Paese, e che per quella sua attività aveva ricevuto frequenti minacce di morte.
Nel famoso “discorso del sogno”, tenuto nel 1963 a Washington davanti ai 250mila partecipanti alla Marcia per il lavoro e la libertà, disse: “Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità”.
King non si limitava a sognare, ma lottò duramente per 13 anni, predicando, denunciando, marciando, inscenando sit-in, organizzando boicottaggi, lasciandosi sbattere continuamente in prigione, anche dopo il conferimento del Premio Nobel 1964 per la pace.
Sfidava minacce, aggressioni, attentati, rifiutando sempre l’uso della violenza, sia pure come reazione alla violenza degli avversari, anche quando i razzisti facevano saltare con la dinamite le chiese e le case dei contestatori, ferivano o uccidevano attivisti del suo movimento e perfino dei bambini.
Nelle sue campagne di lotta non violenta riuscì a mobilitare un numero crescente di concittadini neri, educandoli a raddrizzare la schiena di fronte agli oppressori, a scrollarsi di dosso la paura e il senso di inferiorità che la secolare tirannia dei bianchi aveva radicato nelle loro menti, e a rivendicare con grande dignità e compostezza i propri diritti.
Fu così che rese visibile all’opinione pubblica mondiale il paradosso degli Stati Uniti d’America, costringendo la classe dirigente federale a vergognarsene e a porvi qualche rimedio: il Paese guida del “Mondo libero” che, in nome del federalismo, tollerava al suo interno la dittatura dei bianchi sui neri negli Stati del Sud, con un’odiosa segregazione razziale nelle scuole, nelle università, nei posti di lavoro, negli ospedali, nei locali pubblici, nei mezzi di trasporto, negli alloggi, l’opprimente emarginazione dei neri in una condizione di inferiorità sociale ed economica, la loro esclusione dal diritto di voto e dalla rappresentanza negli organismi elettivi, l’impunità per le violenze dei razzisti bianchi, la persecuzione delle vittime che osavano protestare e reclamare i loro diritti. Il paradosso del più ricco Paese del mondo che, nel 1965 e non solo al Sud, teneva ai margini della sua società opulenta 35 milioni di concittadini poveri, fra i quali 20 milioni di neri, su circa 200 milioni di abitanti.
Nicola Bruni