Piangeva in silenzio, seduta sul basamento di un pilastro nella cattedrale spagnola di Santiago de Compostela, gremita di pellegrini per la Messa di Pentecoste. Una bella ragazza dai lineamenti nordici, con gli occhi verdi e i capelli biondi raccolti. Poco più che ventenne. Indossava una maglietta nera, pantaloncini, scarponi da montagna e uno zaino agganciato alle spalle. Ha versato lacrime amare fino all’offertorio; poi si è calmata e, quando il celebrante ha invitato i presenti a scambiarsi un segno di pace, si è alzata per stringere la mano di chi le stava vicino. Allora, finalmente, il suo volto si è illuminato ed ha sorriso. “La pace sia con te”, le ho detto in italiano.
Ero giunto lì, anch’io, come pellegrino alla tomba di San Giacomo il Maggiore (che i galiziani chiamano Tiago), in occasione dell’Anno giubilare compostelano 2010.
Avevo percorso a piedi gli ultimi quattro chilometri del tradizionale Cammino, partendo dal Monte della gioia.
Ero passato attraverso la Porta santa. Avevo compiuto il gesto rituale di abbracciare la statua lignea dell’apostolo di Gesù pronunciando le parole: “Amico, raccomandami a Dio”.
Il pellegrinaggio a Santiago mi aveva dato la suggestione di partecipare ad un flusso millenario della storia risalente al IX secolo, quando “peregrini” provenienti da tutta l’Europa cominciarono a scegliere quel lontano santuario della regione di Finis Terrae come meta di un itinerario spirituale comune.
Oggi, i pellegrini della Rotta giacobea provengono da ogni continente, e dunque la visita alla tomba di San Giacomo è divenuta una meta universale. Tanto più che, dal 1987, l’omonimo romanzo del brasiliano Paulo Coelho ha fatto del Cammino di Santiago la metafora di un itinerario laico accessibile a tutti: la ricerca della propria strada nella vita.
Nicola Bruni
Nella foto (di Nicola Bruni), la cattedrale di Santiago de Compostela in Spagna.