Ministra, sindaca, rettrice, avvocata, capitana… si dice così, in buon italiano del XXI secolo, quando ci riferisce a una donna che svolge la relativa funzione. L’italiano è una lingua viva, che si evolve con il mutare della società, ed è giusto – in nome della pari dignità tra i sessi – che a nuove professioni e mansioni prima precluse alle donne, si attribuiscano titoli declinati al femminile. La questione è non solo linguistica ma soprattutto politico-culturale, perché è in gioco il superamento dell’atavico sessismo maschilista della lingua italiana, che sottende una discriminazione e una svalutazione sociale dell’universo femminile.
Mi stupisce che il maschilismo dei titoli professionali sia difeso strenuamente anche da donne in carriera le quali considerano offensivo essere chiamate con un titolo al femminile come architetta, avvocata, cardiologa… (per averlo fatto ho ricevuto attacchi furiosi su Facebook). Queste signore, a mio giudizio, soffrono di un inconsapevole complesso di inferiorità nei confronti degli uomini e pensano, benché non lo ammettano, che la parità tra i sessi si raggiunga con l’assimilazione del genere femminile a quello maschile e non con la valorizzazione della specificità delle doti femminili.
Io mi domando perché le professoresse e le dottoresse (munite di qualunque laurea) non ritengano offensivo essere chiamate con un titolo al femminile, mentre certe avvocate, certe architette e certe cardiologhe rifiutino come un insulto la declinazione femminile del proprio titolo.
C’è il ruolo di re, ovvero di regnante, ma se chi lo ricopre è una donna si chiama regina. Il ruolo è lo stesso ma il suo nome si adatta al genere della persona. Così c’è il ruolo dell’avvocatura, che oggi – a differenza che nel passato – è esercitato non solo da avvocati ma anche da avvocate.
Il maschilismo linguistico si manifesta, spesso in maniera inconsapevole, anche nell’applicazione dell’articolo determinativo solo davanti ai cognomi delle donne, per distinguerne il genere: per esempio, si usa spesso dire o scrivere “la Merkel” ma non si dice o scrive mai “il Macron”.
Sono passati 33 anni da quando (1987) la Presidenza del Consiglio dei ministri pubblicò un manuale di “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, a cura di Alma Sabatini.
Quelle raccomandazioni poi sono andate a vuoto. Se invece fossero applicate, dovremmo trovare sempre declinati anche al femminile i nomi di titoli, professioni e mansioni: per esempio, architetta (non architetto donna), ingegnera(come infermiera), avvocata (come nella preghiera Salve Regina), magistrata, notaia, medica chirurga, rettrice, direttrice, assessora, sindaca, questora, prefetta, ambasciatrice, sottosegretaria di Stato, ministra, soldata, marescialla, capitana, colonnella, ammiraglia.
Il genere neutro in italiano non c’è, ma ci sono nomi ambivalenti che si possono usare sia al maschile sia al femminile variando l’articolo: Si può dire: la vigile, la giudice, la presidente, la dirigente, la capostazione, la sergente, la generale, la manager, la leader, la poeta, la profeta, la giornalista. Lo stesso vale per tutti gli altri nomi terminanti in -ista.
Il manuale di Sabatini sconsiglia l’uso del suffisso -essa, specialmente in forme goffe di femminilizzazione come vigilessa e soldatessa (o addirittura cantantessa, che mi è capitato di sentire dal Tgr Rai della Calabria), ammettendolo solo in quei casi in cui non rivesta una connotazione svalutativa, come in studentessa e dottoressa. Peraltro, a insediare un efficace sostituto di professoressa, hanno già provveduto gli studenti, chiamando simpaticamente prof i loro insegnanti, femmine e maschi.
Nicola Bruni
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Nella foto in alto: la capitana Carola Rackete e la rettrice Antonella Polimeni.