Ogni anno, il primo giorno di dicembre mi ricorda quella radiosa mattinata del 1965 in cui mi laureai in Lettere moderne all’Università di Roma. Fu per me una grande soddisfazione, e per i miei genitori – di livello culturale non elevato – un meritato motivo di orgoglio: voto 110 su 110, conseguito dopo la discussione di una tesi di 330 pagine in Storia della lingua italiana su sintassi e stile dello scrittore fiorentino Giovanni Dominici (1355-1419, frate predicatore domenicano, vescovo e cardinale, poi innalzato sugli altari come beato) nel contesto letterario dell’epoca.
Ero stato abbastanza assiduo nella presenza alle lezioni, avevo preso molti appunti, e avevo studiato sempre da solo, con sottolineature sui libri, schemi e riassunti degli argomenti trattati, basandomi su una memoria non ripetitiva ma visiva e di sintesi delle nozioni e dei concetti da recepire. Mi applicavo allo studio prevalentemente di notte, quando riuscivo a concentrami meglio. Scrissi la bozza della tesi di laurea con la mia Olivetti Lettera 22, ricorrendo al “taglia e incolla” per le modifiche al testo e lo spostamento dei brani.
A quel tempo, non c’era la bella usanza di cingersi il capo di una corona d’alloro, e tuttavia fui festeggiato calorosamente dai miei amici durante una cena in un ristorante di Trastevere.
Non ricevetti nessun regalo di laurea dai miei genitori (i quali non usavano dare premi ai tre figli per i successi scolastici, che erano dovuti), e la cena che offrii agli amici la pagai con i miei guadagni di giornalista. In effetti, il regalo di laurea dei miei genitori era la laurea stessa, alla quale con tanti sacrifici mi avevano consentito di arrivare.
Mi ero laureato con un anno di ritardo, sia per la complessità della tesi di laurea, sia perché mentre studiavo avevo altre due impegnative occupazioni: lavoravo come giornalista, per passione e per mantenermi all’università senza gravare sulla mia famiglia, e facevo politica come rappresentante eletto degli studenti a livello di facoltà, di ateneo (Assemblea dell’Orur) e nazionale (Consiglio nazionale dell’Intesa Universitaria e Giunta dell’Unuri). Con la laurea, posi fine a quell’impegno politico.
Quando mi iscrissi a Lettere, e fino al giorno della laurea, non avevo intenzione di fare il “prof”, ma puntavo esclusivamente al giornalismo. Dopo la laurea, un amico – Antonio Collareta – mi consigliò di provare l’insegnamento, e mi decisi a presentare domande di supplenza a una trentina di scuole di Roma e provincia. Fui chiamato subito, per una sostituzione di maternità di cinque mesi in una scuola media di Palestrina, con inizio dal 7 gennaio 1966.
Solo allora scoprii che quella era la strada della felicità per la mia vita, e abbracciai con entusiasmo l’insegnamento come professione principale, pur continuando nel tempo libero a scrivere articoli per i giornali.
Ora ringrazio il Signore per avermi ispirato a fare quella scelta felice.
Nicola Bruni
Nella foto, sono alla facoltà di Lettere della Sapienza accanto alla mia mamma, Stella Cesarelli, il giorno della mia laurea.