“Il Piave mormorava, / calmo e placido, al passaggio / dei primi fanti, il ventiquattro maggio; / l’esercito marciava / per raggiunger la frontiera / per far contro il nemico una barriera…”.
Così la prima strofa della famosa Canzone del Piave, di E. A. Mario, che da bambino mi riempiva di ardore patriottico, poiché rievocava l’inizio di una guerra vittoriosa per l’Italia, a pochi anni dalla mortificante disfatta subìta dal nostro Paese nel secondo conflitto mondiale.
Allora non sapevo che quella strofa non la raccontava giusta, poiché il 24 maggio del 1915 il Regio esercito non andò a difendere la frontiera della patria minacciata di invasione, ma a invadere le cosiddette “terre italiane irredente”dell’Impero austroungarico, del quale fino a pochi mesi prima l’Italia era ufficialmente alleata, insieme con la Germania.
Allora non sapevo quale era stato il prezzo pagato dal popolo italiano per quella vittoria, che festeggiavamo ogni anno il 4 novembre con un giorno di vacanza a scuola: circa 650mila morti, un’immensa moltitudine di persone rese infelici dagli eventi bellici (mutilati, invalidi, orfani, vedove, madri, padri e fratelli in lutto), milioni di ex combattenti tornati a casa in miseria e poi costretti in gran numero a emigrare, un’orribile devastazione delle terre “liberate” del Trentino e della Venezia Giulia, lo spreco di enormi risorse materiali e, come conseguenza fatale, la dittatura fascista.
Poi, in età matura, mi capitò di mettere a confronto giudizi contrastanti sulla “santità” della Grande Guerra contro l’Austria del 1915-18: per il presidente del Consiglio che la aveva dichiarata, Antonio Salandra, di fede laica, era una “guerra santa”; per il “santo padre” Benedetto XV era, invece, una “inutile strage” (17 milioni di morti in totale) che disonorava l’Europa. E il laico Giovanni Giolitti (capo del precedente governo) dava indirettamente ragione al papa sostenendo che l’Italia avrebbe potuto ottenere Trento e Trieste mediante trattative segrete con l’Austria in cambio della neutralità.
Mi capitò anche di leggere, da un libro dello storico Antonio Gibelli, che negli anni successivi all’orrenda carneficina di quella guerra fu attuata in Italia una gigantesca operazione di immagine attraverso il culto dei monumenti ai caduti, disseminati ovunque.
Questa perseguì, e raggiunse ampiamente, lo scopo di “trasformare il risentimento in pietà, e la pietà in orgoglio per la morte santa e nobile” dei combattenti mandati al macello, “convertire il lutto privato in consenso collettivo alla patria” e nel “culto della nazione”, ed evitare “che lo sgomento e l’orrore per la morte di massa sfociassero in rivolta” contro una classe dirigente di guerrafondai.
Nicola Bruni
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Nella foto, un soldato italiano ferito durante la Grande Guerra, soccorso da due commilitoni tra le macerie.