La sera del 3 agosto 1973, Elina ed io stavamo passeggiando sottobraccio, da buoni amici, per le vie di Osimo, quando accadde un evento imprevisto e straordinario che cambiò le nostre vite.
Eravamo andati, con la mia Fiat 500, a visitare quella graziosa cittadina delle Marche. Ci eravamo conosciuti appena cinque giorni prima a Loreto, come partecipanti a un convegno di studio di professori cattolici dell’Uciim. Lei veniva da Catania, io da Roma, entrambi insegnanti di Lettere.
Al ristorante dei convegnisti, fummo assegnati allo stesso tavolo. Io ero seduto proprio di fronte a lei, e osservavo incantato la sua bellezza dolce e raffinata. Mi affascinavano i suoi grandi occhi verdi, la limpidezza del suo sguardo, la serenità che traspariva dal suo volto, il suo modo di parlare pacato, il suo sorriso. Mi piaceva la musicalità che a volte assumeva la sua voce, in particolare quando diceva: “È bellìiissimo!”.
Mi sembrava impossibile che una ragazza così bella non avesse un fidanzato, e mi domandavo chi fosse l’uomo destinato a godersi quella meravigliosa creatura. Lungi dall’immaginare che avrei potuto essere io.
Notai che aveva una certa somiglianza con la famosa principessa iraniana Soraya, e glielo dissi. Lei si schermì, ma ammise che i suoi amici la “prendevano in giro” chiamandola proprio Soraya.
Tra lei e me si stabilì un rapporto di simpatia e ci frequentavamo assiduamente nei giorni del convegno. Conversando con Elina, scoprii che c’era consonanza tra il suo e il mio modo di pensare, tra la sua e la mia spiritualità cristiana. Mi sarebbe piaciuto poterle dichiarare il mio innamoramento, ma ero frenato da due opposti timori: che un suo, sia pur cortese, diniego mi avrebbe ferito nell’orgoglio; e che se, invece, lei mi avesse corrisposto, non me la sarei sentita eventualmente di “rubare” la donna di un altro.
Un giorno andammo con la mia macchina a visitare il Colle dell’Infinito di Leopardi, a Recanati, dove le infilai dei fiori di oleandro tra i capelli; un altro giorno, salimmo a San Marino. Lì, seduti al tavolino di un bar, scrissi davanti a Elina una decina di cartoline indirizzate ad altrettante mie alunne dell’istituto tecnico femminile Margherita di Savoia di Roma, che me ne avevano inviata una dai rispettivi luoghi di vacanza, facendola aspettare e lasciandole intendere che lei non fosse al primo posto nei miei pensieri.
Dunque, quella sera del 3 agosto 1973, mentre passeggiavamo ad Osimo sotto un porticato, improvvisamente venne a mancare la luce per un blackout elettrico e ci ritrovammo al buio, soli e segretamente innamorati, in un’atmosfera molto romantica. Allora io, mosso da un impeto di desiderio, strinsi a me Elina e cominciai sbaciucchiarla con un entusiasmo liberatorio: sul collo, sul mento, sulle guance, sulla fronte; poi, visto che lei mostrava di gradire quelle effusioni, passai a baciarla sulla bocca, e ci fu tra noi un lunghissimo e tenerissimo bacio a labbra chiuse, come un’appassionata dichiarazione d’amore.
Dopodiché, felici, emozionati e sbalorditi per ciò che era accaduto, restammo senza parole, e tornammo in albergo con il cuore in tumulto. Passammo entrambi, ciascuno nella propria camera, quasi tutta la notte in bianco, a riflettere su che cosa fare dopo quel bacio.
L’indomani, terminato il convegno, ci congedammo come amici, ma mi accorsi che lei aveva gli occhi inumiditi da una lacrima. Mi disse malinconicamente: “Ora tu te ne vai per la tua strada, io per la mia”. Le risposi: “Verrò a trovarti a Catania. Forse, potremmo andare per la stessa strada insieme”.
E così fu. Undici mesi dopo ci sposammo “per sempre“, benché non avessimo ancora avuto modo di conoscerci a fondo. Infatti, durante il nostro fidanzamento a distanza – quella tra Catania e Roma – potemmo frequentarci per non più di 40 giorni. Ma ci fidammo del forte convincimento che fosse stata la Madonna, da noi pregata nel suo santuario di Loreto, a sceglierci come sposi e a far scattare quel provvidenziale blackout dal quale sarebbe scaturito il “colpo di fulmine” del nostro amore.
Nicola Bruni