Sono stato uno studente “meritevole” in tutta la mia carriera scolastica, a partire dal 1947, sempre promosso a giugno e con buoni voti. Ho beneficiato di quattro borse di studio, di cui una derivante da un premio letterario di un ente privato. Ho studiato e ho lavorato come giornalista negli anni dell’università, arrivando a laurearmi in Lettere alla “Sapienza” nel 1965 (in ritardo di un anno) con il massimo dei voti.
Grazie allo studio ho potuto avvalermi del cosiddetto ascensore sociale e diventare un professore, provenendo da genitori con un livello di istruzione elementare e da condizioni di ristrettezza economica durante i miei anni verdi.
Ma dietro di me ho lasciato le macerie umane di una selezione scolastica spietata che ha buttato fuori della scuola o costretto alla ripetenza molti miei compagni di classe.
La mia è stata una “scuola del merito” che tendeva mandare avanti solo i “capaci e meritevoli”, con l’aggiunta di chi potesse permettersi ripetizioni a pagamento o la scappatoia del “recupero” in un istituto privato. Quella scuola faceva “parti uguali tra disuguali”, trattando il figlio del professionista come il figlio dell’operaio, la ragazza più svelta come quella più lenta nell’apprendere.
Sono stato alunno di classi “pollaio”, zeppe di ripetenti, ai tempi in cui il “sostegno” per gli studenti problematici non era stato ancora inventato.
Al liceo-ginnasio Augusto di Roma, di 30 alunni che componevano la mia prima classe, arrivammo alla quinta nel 1959/60 solo in 6: vale a dire che in 4 anni i professori, “bravissimi”, ne avevano bocciati l’80 per cento, fallendo sostanzialmente come docenti. In molti casi, i bocciati non erano riusciti a tenere il passo con un ritmo di apprendimento troppo rapido e non avevano ricevuto nessun aiuto.
La scuola da me frequentata è stata anche una scuola competitiva. Alle medie, nella mia classe, eravamo in 3 a competere per il titolo di più bravo, e le insegnanti rivolgevano principalmente a noi le loro attenzioni. Io e il mio amico Raniero eravamo i “latinisti” della classe, e la nostra prof ci faceva gareggiare nella traduzione “all’impronta” mettendoci con il gesso in mano ai due lati della lavagna, mentre i nostri compagni facevano da spettatori e di fatto venivano trascurati nella didattica.
Ecco perché mi preoccupa la trasformazione del Ministero della Pubblica istruzione in “Ministero dell’Istruzione e del merito”.
Nicola Bruni
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LA FOTO
Questa foto coglie il momento in cui, il 10 maggio del 1960, mi venne consegnato il primo premio (diploma e assegno di 30mila lire) per il liceo Augusto di un concorso letterario indetto dal Rotary Club tra gli studenti delle ultime classi dei licei statali romani (c’erano tre premi per ogni scuola). La cerimonia si svolse durante una cena di gala nel famoso Hotel Excelsior del film “La dolce vita”, in Via Veneto, alla presenza del ministro della Difesa Giulio Andreotti, del sindaco di Roma Salvatore Rebecchini (seduto alle mie spalle) e di molti capi d’istituto.
Dopo la premiazione fui chiamato a tenere un discorso a nome degli studenti premiati.
Nel tema del concorso, avevo raccontato la mia esperienza di giovane animato da grandi ideali, impegnato in attività formativo-culturali, associative e politiche, oltre che nello studio, e desideroso di contribuire al bene comune della società e al progresso dell’Italia (in quell’anno ero presidente dell’Unione Romana Studenti e direttore del giornalino studentesco Augustus).
Con le 30mila lire del premio (pari circa 800 euro di oggi) mi finanziai un avventuroso viaggio di 26 giorni in autostop attraverso l’Europa, che passando per gli ostelli della gioventù mi portò fino ad Amsterdam.
Nicola Bruni