E’ diventato, per contrappasso, un monumento gioioso alla libertà che travolge la dittatura: un tratto superstite, lungo 1300 metri, di quel “Muro della vergogna”, strumento e simbolo della tirannia comunista, che per 28 anni – dal 13 agosto 1961 alla sera del 9 novembre 1989 – divise in due la città di Berlino imprigionando la popolazione del settore Est.
Sottratto ai picconi e alle ruspe che, dopo la notte della liberazione,
abbatterono e sgomberarono i 155 chilometri dell’odiata barriera, fu offerto
come una tavolozza ad un centinaio di pittori di murales provenienti da vari
Paesi. I quali lo hanno coperto di fantasiosi graffiti, via via rinnovati e
restaurati nel corso degli anni, trasformandolo nella galleria d’arte moderna
più grande al mondo: la East Side Gallery.
Il dipinto più bello, ai miei occhi, raffigura un fiume impetuoso di gente,
composto di tante facce stupite del “miracolo” in atto, che aprendosi un varco
nel Muro si riversa pacificamente da Est a Ovest.
Al secondo posto, l’allegra demolizione di un pezzo del “Maurer”, mattone per
mattone, che impegna a mani nude una squadra multietnica di volontari.
Il tema della fuga verso la libertà è il più ricorrente: dal soldato con
elmetto in testa e mitra a tracolla che salta sopra il filo spinato,
all’autovettura Trabant che sfonda gli sbarramenti, dall’arrampicatore che
scavalca in giacca e cravatta, all’atleta che balza oltre l’ostacolo inseguito
dai proiettili dei “vopos”.
Non manca il ricordo di quanti furono assassinati nei tentativi di fuga.
Ironia e sarcasmo ispirano molte opere. La più pungente è quella che riproduce un viscido bacio sulla bocca del 1979 tra due “tirannosauri”, il sovietico Breznev e il tedesco-orientale Honecker. L’accompagna una preghiera: “Signore, aiutami a sopravvivere a questo amore letale”.
Nicola Bruni