La “scuola del merito” che umiliava i “somari”.
Il “banco degli asini”, nei miei ricordi di scolaretto degli anni 1947-1952, alla “Manzoni” di Roma, era un vecchio banco di legno a due posti, con il sedile fisso e dipinto di grigio come gli altri, ma isolato in fondo all’aula.
In quel banco della vergogna la “Signora Maestra” usava deportare temporaneamente, all’occorrenza, chi da una prova di verifica risultasse “il più somaro della classe”: di solito, un piccolo monello con problemi psicologici, che “non aveva voglia di studiare”, che si ostinava a non imparare le tabelline, a non azzeccare i congiuntivi, a scrivere “squola” con la q, a “dimenticare” i quaderni a casa, e per giunta a disturbare le lezioni. Magari uno di quelli che si divertivano a dare ai “primini” un benvenuto canzonatorio nel mondo dell’alfabeto incidendo sulle pareti dei gabinetti l’indicibile insulto “Fesso chi legge”.
A quei tempi, il titolo di asino, ciuccio, somaro o somarello spettava di diritto agli alunni giudicati ignoranti perché non studiavano, e nessuno poteva lamentarsene.
Così come nessun genitore osava protestare se il proprio rampollo veniva “meritatamente” costretto a fare il giro delle classi maschili con un cappello di carta dalle orecchie di asino, secondo la pedagogia di Pinocchio. Un castigo “educativo” estremo che nelle classi femminili veniva inflitto anche alle “asinelle”. Con il bel risultato che quei bambini così messi alla berlina, spesso, non volevano più andare a scuola e “toglievano il disturbo” agli insegnanti, i quali tendevano a considerarli irrecuperabili perché “non portati per lo studio”.
Nicola Bruni