Sono nato a Roma il 26 ottobre 1941, “anno XX dell’Era Fascista”, suddito del re Vittorio Emanuele III di Savoia e del dittatore Benito Mussolini, mentre l’Italia era impegnata in una guerra di aggressione contro altri popoli europei a fianco della Germania nazista. E nella mia più tenera età ho dovuto subire il terrore dei bombardamenti aerei, le fughe precipitose con la mia famiglia dal nono piano verso il rifugio di uno scantinato, quando suonava la sirena di allarme, e un tenore di vita poverissimo con pesanti privazioni alimentari.
Sono coetaneo (solo 3 mesi di meno) del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con il quale ho avuto la fortuna di condividere a distanza, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, la stessa formazione religiosa, civile e politica, gli stessi grandi maestri di ideali, frequentando la Chiesa, le associazioni cattoliche e il Movimento Giovanile della Democrazia Cristiana. Per quelli della mia età, la libertà, la democrazia, la repubblica e la parità dei diritti per le donne sono state una conquista della generazione dei nostri padri e delle nostre madri, di chi contribuì con la lotta armata o con la resistenza passiva alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo e, poi, con il voto all’avvento delle istituzioni repubblicane e democratiche.
È il caso dei miei genitori, Peppino e Stella, che il 2 giugno del 1946 poterono votare per la prima volta nella loro vita, all’età di 39 anni, e furono tra i 12 milioni 717mila 923 italiani (2 milioni in più dei monarchici) che contribuirono a cacciare il Re e fondare la Repubblica.
Papà e mamma avevano anche partecipato concretamente alla resistenza passiva contro i tedeschi. Peppino, che era in servizio al Ministero della Guerra come maresciallo dell’Esercito, all’inizio del 1944 si rifiutò di giurare fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana di Mussolini e fu licenziato in tronco “senza assegni” (si salvò dalla deportazione in Germania perché i nazisti non si misero a cercarlo). Di conseguenza, la mia famiglia (con due bambini piccoli) patì la fame fino alla liberazione di Roma nel giugno del 1944, e sopravvisse grazie a prestiti e aiuti dei vicini di casa. Inoltre, durante l’occupazione tedesca, mamma e papà nascosero in casa due parenti calabresi ventenni, che studiavano a Roma, renitenti alla leva della RSI, esponendosi al rischio di essere arrestati o persino fucilati nel caso fossero stati scoperti, magari su denuncia di qualche delatore.
Allorché, da studente liceale, cominciai a ragionare di politica con ragazzi più grandi di me, capii quale rivoluzione avesse rappresentato nella storia d’Italia l’avvento della Repubblica, e della sua Costituzione democratica, rispetto al vecchio Statuto del Regno (sia nella versione liberale sia in quella totalitaria fascista, parimenti fondate sulla disuguaglianza e sul privilegio), affermando tre nuovi principi di civiltà:
1) “la sovranità appartiene al popolo”, non più ad un “sovrano” che, “per grazia di Dio” (arbitrariamente presunta) e per diritto di nascita, si considera proprietario dello Stato;
2) “tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”; pertanto, le donne hanno gli stessi diritti degli uomini e “i titoli nobiliari non sono riconosciuti”;
3) “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano “di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”.
Ricordo i racconti che mi faceva mia madre, sugli ostacoli di ordine sociale da lei incontrati fin da quando era bambina: nata in una famiglia di “signori”, di ascendenza baronale, in un paese della Calabria, le fu inibito per superbia nobiliare di frequentare la scuola pubblica con i suoi coetanei, come fortemente desiderava, perché non poteva “mischiarsi con il popolino”; e dovette rassegnarsi a ricevere un’istruzione individuale privata. Anche per ribellarsi a quella superbia e a quei condizionamenti, mia madre, conquistati finalmente nel 1946 i diritti politici come cittadina, votò “Repubblica”.
Nicola Bruni
La mia famiglia in una foto scattata il 24 agosto del 1943, due settimane prima dell’Armistizio.
Io sono in braccio a papà, mentre la mamma tiene la sorellina Mariuccia, che aveva 47 giorni di vita.