Martin Luther King fu ucciso alle ore 18,01 del 4 aprile 1968, mentre era su un balcone del Lorraine Motel di Memphis, nel Tennessee. L’assassino, il razzista bianco James Earl Ray, lo colpì alla testa sparandogli un solo proiettile con un fucile di precisione.
L’indomani ne parlai ai miei alunni della scuola media di Strangolagalli (Frosinone), ricordando che King era il leader della lotta non violenta condotta negli Stati Uniti dal movimento per i diritti civili degli afroamericani, allora soggetti a pesanti discriminazioni in quel grande Paese, e che per quella sua attività aveva ricevuto frequenti minacce di morte.
Citai, innanzi tutto, il famoso Discorso del sogno, tenuto il 28 agosto 1963 a Washington davanti ai 250mila partecipanti alla Marcia per il lavoro e la libertà, in cui disse: “Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità”. Poi spiegai che King non si limitava a sognare, ma lottò duramente per 13 anni, predicando, denunciando, marciando, inscenando sit-in, organizzando boicottaggi, lasciandosi sbattere continuamente in prigione, anche dopo il conferimento del Premio Nobel 1964 per la pace.
Sfidava minacce, aggressioni, attentati, rifiutando sempre l’uso della violenza, sia pure come reazione alla violenza degli avversari, anche quando i razzisti facevano saltare con la dinamite le chiese e le case dei contestatori, ferivano o uccidevano attivisti del suo movimento e perfino dei bambini. King riuscì a mobilitare nelle sue campagne di lotta non violenta un numero crescente di concittadini neri, educandoli a raddrizzare la schiena di fronte agli oppressori, a scrollarsi di dosso la paura e il senso di inferiorità che la secolare tirannia dei bianchi aveva radicato nelle loro menti, e a rivendicare con grande dignità e compostezza i propri diritti.
Fu così che rese visibile all’opinione pubblica mondiale il paradosso degli Stati Uniti d’America, costringendo la classe dirigente federale a vergognarsene e a porvi qualche rimedio: il Paese guida del “Mondo libero”, che in nome del federalismo tollerava al suo interno la dittatura dei bianchi sui neri negli Stati del Sud, con un’odiosa segregazione razziale nelle scuole, nelle università, nei posti di lavoro, negli ospedali, nei locali pubblici, nei mezzi di trasporto, negli alloggi, l’opprimente emarginazione dei neri in una condizione di inferiorità sociale ed economica, la loro esclusione dal diritto di voto e dalla rappresentanza negli organismi elettivi, l’impunità per le violenze dei razzisti bianchi, la persecuzione delle vittime che osavano protestare e reclamare i loro diritti.
Era il paradosso del più ricco Paese del mondo che, nel 1965 e non solo al Sud, teneva ai margini della sua società opulenta 35 milioni di concittadini poveri, fra i quali 20 milioni di neri, su circa 200 milioni di abitanti.
Di qui, l’invettiva con cui King, pastore della Chiesa battista, ammonì il suo Paese in un sermone pronunciato a Memphis pochi giorni prima di essere ucciso: “Il ricco Epulone della parabola evangelica non finì all’inferno perché era ricco, ma perché rifiutò di usare la sua ricchezza per sfamare il povero Lazzaro. Ora io vengo qui a dire che anche l’America andrà all’inferno se non userà le sue immense risorse di ricchezza per mettere fine alla povertà e rendere possibile a tutti i figli di Dio di soddisfare i bisogni elementari della vita”.
Nicola Bruni