Quando io e i miei fratelli eravamo bambini, a casa nostra, un appartamentino al nono piano di Via Licia 54 a Roma, il 6 gennaio di ogni anno arrivava la Befana (Babbo Natale non ci conosceva). La magica vecchina, volando a cavallo di una scopa, entrava misteriosamente di notte, come un fantasma, dalla cappa della cucina, e dopo aver deposto tre giocattoli sul coperchio della macchina del gas, addobbato per l’occasione, riempiva di dolciumi le tre calze che avevamo appeso ad un filo, con i nomi di Nico, Mariuccia e Antonio su altrettanti bigliettini.
La mattina dell’Epifania andavamo tutti e tre figli, insieme, nella cucina e vi trovavamo la felicità. Io, fino all’età di 10 anni, credevo alla Befana, nonostante le voci contrarie da me udite, per un motivo “inoppugnabile“: i nostri genitori erano abbastanza poveri da non potersi permettere di comprare quei costosi giocattoli che arrivavano il 6 gennaio (e che, a nostra insaputa, ci venivano donati dal Dopolavoro del Ministero della Difesa). Con il solo stipendio di mio padre, maresciallo dell’Esercito, dovevamo campare in sei, compresa la “tata” Caterina, amica della mamma che viveva con noi, e nel bilancio familiare non c’era posto per l’acquisto di giocattoli.
Una volta, alla vigilia dell’Epifania, mia madre ci raccontò una storia della Befana che aveva portato i suoi doni a quattro bambini poveri, figli di contadini, i quali vivevano in un casolare di campagna e non possedevano nessun giocattolo vero e proprio. Dopodiché, il nostro amichetto Lillino, che aveva ascoltato con noi quel racconto, tornò a casa commosso e assalì i suoi genitori dicendo: “Siete cattivi. La Befana esiste. L’ha detto la signora Bruni, che mi ha raccontato una storia vera”. Finì che il papà di Lillino dovette uscire, nonostante il freddo, la sera del 5 gennaio per andare a cercare i doni della Befana in Piazza Navona.
Nicola Bruni