Mi risuonano, ogni tanto, nella mente le frasi introduttive della Santa Messa in latino, che ho servito molte volte da “chirichetto” (così si diceva a Roma) negli anni tra il 1950 e il 1955, dalla quarta elementare alla terza media: “Introibo ad altare Dei” (Salirò all’altare di Dio), esordiva il celebrante; “Ad Deum qui laetificat iuventutem meam” (A Dio che allieta la mia giovinezza), rispondevo io, allora piccolino, rivestito di camice rosso e cotta bianca.
In effetti, riflettendo sulle fasi più remote della mia vita, debbo riconoscere che Dio ha allietato, protetto e indirizzato la mia giovinezza: mi ha portato a guardare con fiducia al mio futuro, mi ha spronato a impegnarmi per costruirlo contando sulle mie sole forze; mi ha reso desideroso di imparare; mi ha aperto a costruttive relazioni con gli altri; mi ha infuso l’entusiasmo per l’insegnamento e la passione per il giornalismo; infine mi ha guidato, quasi per mano, in un’altra città ad incontrare la ragazza che mi avrebbe reso felice.
Sono stato a lungo chierichetto e discepolo di un santo parroco, don Luigi Rovigatti (futuro arcivescovo e vicegerente della diocesi del Papa, morto “in odore di santità” nel 1975), nella chiesa romana della Natività, in Via Gallia: un prete umile, mite e sapiente, che ha contribuito a radicare nella roccia la mia fede cristiana. Ora la sua anima è nella gloria di Dio, mentre il suo corpo è sepolto nella cappella della navata destra di quella chiesa.
Allora, vigeva la liturgia preconciliare. Il sacerdote celebrava la Messa rivolto al tabernacolo, posto al centro dell’altare, e dando le spalle ai fedeli. Ogni tanto si girava, dicendo: “Dominus vobiscum” (Il Signore sia con voi). E i fedeli rispondevano: “Et cum spiritu tuo”. Io notavo, argutamente, che al prete si doveva dare del “tu” in latino e del “lei” in italiano.
Da ministrante, versavo l’acqua e il vino da due ampolline al sacerdote durante la Messa, suonavo il campanello al momento della consacrazione, tenevo il piattino dorato sotto il mento dei fedeli alla Comunione, preparavo e agitavo l’incensiere.
A volte, venivo chiamato per accompagnare un funerale, al seguito di una carrozza funebre in stile barocco (come si usava allora), trainata da due, quattro o sei cavalli neri con pennacchi. In quelle occasioni, dato che abitualmente “non avevo una lira”, mi costava molto rifiutare la mancia dei familiari del defunto, perché – come diceva don Luigi – “il servizio al Signore si fa gratis”.
Nicola Bruni