Torna d’attualità, in tempi di “vacche magre”, l’antica metafora delle “nozze coi fichi secchi”, risalente a un’epoca in cui i fichi secchi erano diffusamente un cibo da poveri. Si può riferire a ogni pretesa di fare qualcosa di importante con risorse inadeguate.
Nella scuola, per esempio, è applicabile ai reiterati propositi governativi di restituire dignità alla professione docente, migliorare la qualità dell’insegnamento, incentivare il merito. Domanda ricorrente: “Con quali mezzi?”. Autorisposta: “Coi fichi secchi”.
Le “nozze coi fichi secchi” più famose della nostra storia furono quelle celebrate “in forma dimessa” a Roma tra il principe ereditario Vittorio Emanuele III di Savoia e la principessa Elena Petrovich del Montenegro, il 24 ottobre 1896.
A bollarle in modo così spregiativo fu un giornalista dalla lingua biforcuta, Edoardo Scarfoglio, il quale insieme con la moglie Matilde Serao orchestrò, sul quotidiano di Napoli Il Mattino, una campagna denigratoria contro quel matrimonio che elevò a Regina d’Italia una “contadina”, figlia di un “sovrano pastore”.
Ciononostante, come racconta Cristina Siccardi nel libro “Elena, la regina mai dimenticata” (Ed. Paoline), il successo di quella regina fu “grandissimo”. Piacque agli italiani la semplicità della nuova sovrana, che d’intesa con suo marito, appena salito al trono, smantellò il sontuoso apparato di corte e impose un regime di sobrietà nella vita della famiglia reale. Per la quale, spesso, era lei stessa a servire in tavola, dopo aver personalmente cucinato le pietanze preferite.
Insomma, grazie alla regina “campagnola”, tra i pochi meriti del re Vittorio Emanuele III (1900-1946), gli va riconosciuto quello di aver introdotto l’etica dei fichi secchi nel più alto palazzo del potere, dando con ciò un buon esempio ai suoi sudditi.
Nicola Bruni