“Sarò breve”: quando chi interviene in un dibattito premette che dirà poche parole, i “buoni intenditori” in ascolto, di solito, cominciano a preoccuparsi perché ne ha già sprecate due. Immaginatevi, poi, come tengano d’occhio l’orologio quando gliene sentano sciupare altre cinque nell’annuncio: “Ancora una parola per finire”. Ne era consapevole il filosofo Blaise Pascal, che nel 1656 apriva così una delle sue “Lettres provinciales”: “Mi scuso per la lunghezza della mia lettera, ma non ho avuto il tempo di scriverne una più breve”. Essere brevi, cioè sintetici e completi, nell’esporre il proprio pensiero non è facile. Solo un lungo esercizio può fornire l’abilità di combinare, improvvisando, il “dono della sintesi” con il “regalo dell’analisi”. Lo sanno i giornalisti, i quali sperimentano spesso come richieda più lavoro ridurre un articolo alla dimensione prestabilita che stenderlo liberamente in maniera ampia e dettagliata. Lo sanno quegli insegnanti che devono prepararsi per riuscire a contenere la spiegazione di un argomento entro limiti temporali rispettosi della capacità di attenzione continuativa degli alunni. Dovrebbero saperlo gli studenti, qualora siano stati impegnati non solo a comporre riassunti su misura di piccola taglia, ma anche a fare esercizi di drastica abbreviazione di un testo, per esempio da 60 a 30 righe, con i dovuti adattamenti formali: bando a ripetizioni, via gli avverbi e gli aggettivi superflui, via le perifrasi, meno subordinate e più sintassi nominale, via alcune informazioni di contorno e i particolari meno interessanti, ma con l’accortezza di preservare il contenuto essenziale del messaggio e la scorrevolezza del discorso. In conclusione, il proverbio al quale ho alluso all’inizio dovrebbe essere così riformulato: “A buon espositor poche parole”.
Nicola Bruni